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«Mio padre su Mercurio» Bepi Colombo l’amico dell’universo

La più ambiziosa missione dell’Esa porta il nome del grande scienziato padovano Un orgoglio per la città e per tutta l’Italia, una famiglia che lo ricorda con affetto intatto

Anna Sandri
4 minuti di lettura



Ci sono sere d’inverno, quando l’aria è fredda e limpida, che il cielo sembra più profondo eppure più vicino. È in sere così che viene da pensare a quel prodigio di tecnologia, di scienza e di pensiero matematico che da due mesi è in viaggio verso l’infinito e che nella sua vernice bianca porta il nome di un uomo, un italiano, un padovano.

BepiColombo, scritto così tutto attaccato, è una missione spaziale affascinante quanto ardita: arrivare su Mercurio, il pianeta ancora misterioso, e Giuseppe Colombo è il matematico che con il suo pensiero ne ha messo le fondamenta. C’è lui, in viaggio su quella sonda; c’è lui che va non a esplorare ma a trovare le conferme di cose che sapeva già. Lo raggiungevano fulminee intuizioni: «Credo fossero quelle ad accendergli lo strano sorriso che si apriva senza un motivo apparente». E poi le spiegava in modo semplice agli esimi colleghi che intorno allo stesso tema si erano tormentati per mesi senza venirne a capo: «C’era stato questo convegno di cervelloni per spiegare come arrivare su Mercurio, e tutti alla fine parevano soddisfatti. Al momento dei saluti lui si alzò e disse: no scusate io non sono d’accordo. Nel silenzio totale spiegò quella che sarebbe stata indicata come la teoria della fionda gravitazionale» e il destino delle missioni spaziali americane cambiò. A scoprire il primo segreto del pianeta - l’accoppiamento tra moto rotatorio e moto orbitale - era stato lui.

I nipoti alla Base

Gian Emilio Colombo, commercialista, è il più giovane dei due figli di Giuseppe Colombo; il maggiore, Federico, è neurochirurgo. È Gian Emilio a raccontare cosa vuol dire essere figli di un uomo che ha contribuito in maniera determinante alla ricerca spaziale; cosa significa pensare che tuo padre è in viaggio verso Mercurio, dove porterà il suo nome, il tuo, quello dei tuoi figli e dei tuoi nipoti.

I Colombo sono una famiglia riservata, ma non sono gelosi di questa memoria. «Del fatto che la missione avrebbe portato il nome di nostro padre lo abbiamo saputo dalla compagna del figlio di mio fratello, astrofisica che lavora all’Esa. A rappresentare la famiglia al lancio c’erano i nipoti. Sono stati accolti con tutti gli onori; e tornando ci hanno trasmesso tutta l’emozione e la commozione provata nel momento in cui la sonda, con il nome così evidente, si è staccata e si è alzata verso il cielo».

«Mio padre» continua Colombo «era un uomo di origini umili, ed era nato in tempi difficili. Aveva sì un talento straordinario, una incredibile capacità di calcolo. Ma se è riuscito a continuare la scuola in tempi in cui perfino mettere assieme il pranzo con la cena era un’impresa, lo deve alla forza e alla tenacia con cui ha studiato, in certi momenti fino a consumarsi».

Una sorta di aura

Il liceo, l’Università, tutto conquistato lottando, dando ripetizioni per mantenersi: «E proprio così, dando ripetizioni, ha conosciuto la sorella di un suo allievo: mia madre, la donna che ha amato dal primo momento, che è stata la sua guida e la sua forza, alla quale è stato devoto».

Giuditta era bellissima, le foto restituiscono un viso che ricorda Lauren Bacall, lo stesso taglio degli occhi, ma il sorriso al posto del broncio fatale. «È facile capire perché lui si innamorò di lei; il perché lei si innamorò di lui, che certo non era bellissimo e veniva da tutt’altro ambiente sociale, me lo spiego con quella cosa che gli amici di mio padre hanno sempre detto, aveva qualcosa di diverso da tutti gli altri, una sorta di aura».

Certo è che si sono amati per tutta la vita, e lei gli è sopravvissuta un anno soltanto: «Papà è morto giovane, aveva solo 63 anni; mamma è morta l’anno dopo, in un incidente stradale. A volte penso che non potessero in alcun modo restare divisi». Insieme avevano affrontato una vita piena di colpi di scena. «Lui talvolta si perdeva. La matematica credo sia così, ci si smarrisce in pensieri astratti. Lei non lo ha mai lasciato solo, e più di una volta ha fermato le sue fughe nell’astratto». Lei era il “satellite guinzaglio” di lui, come in quella sua intuizione che poi fu alla base delle missioni Shuttle.

Insieme, e con il più piccolo dei due figli (il più grande per ragioni di studio restò a Padova, affidato a una zia), salirono su quella nave che da Genova in nove giorni li avrebbe portati a New York: l’avventura americana sarebbe iniziata sotto due metri di neve. Lui sapeva un po’ di tedesco, lei di francese, il bimbo sapeva l’italiano: «Eppure siamo partiti, arrivati, e lì a mio padre si è aperto un mondo nuovo». Gli americani in compenso non riuscivano ad articolare “Giuseppe”, e quando sentirono Giuditta che lo chiamava Bepi fecero loro il soprannome, ed è per questo che la sonda si chiama così.

L’offerta rifiutata

In America la sua intelligenza si impose presto come irrinunciabile, e non sarebbe mai più tornato indietro: «Negli ultimi anni faceva due settimane in America, una in Italia. La famiglia era qui a Padova. Arrivarono gli anni della lotta dura, gli lanciarono anche una molotov sulla porta di casa, perché “lavorava con gli americani”. «Ignoravano che aveva rifiutato un’offerta economicamente impressionante: ma era un’industria che produceva armi e, d’accordo con mia mamma, decise che no, le armi no».

A Padova frequentava gli amici di sempre, quelli degli anni giovanili; le esperienze, i premi e i successi non avevano certo modificato la geografia dei suoi affetti. Nemmeno quella della sua fede: «Era molto religioso, lo era in modo profondo e convinto. Nelle sue ricerche sull’universo non so se avesse trovato conferme alla sua fede, certo non aveva trovato smentite».

La tenerezza

La malattia fu il tradimento del destino ai suoi affetti, alla ricerca e alla scienza: fino all’ultimo dall’America i colleghi chiamavano, per chiedergli come stava ma anche per continuare con lui la straordinaria avventura spaziale: «Telefonate che lo raggiungevano nel reparto in ospedale, oggi sembra incredibile ma tutti quegli studi, quei contatti, erano avvenuti così, per lettera. Non esisteva nemmeno il fax, fui io a parlargliene la prima volta, era già malato». Tempi non così lontani, eppure già remoti: «Ma nell’oggi non si troverebbe a suo agio, soffrirebbe la mancanza di moralità. l’approssimazione»-

I ricordi appartengono alla famiglia, i suoi studi alla scienza; l’orgoglio è condiviso ma in realtà forse appartiene più agli altri, a quelli che in Colombo vedono il grande italiano: «L’orgoglio sì, certo» dice il figlio. «Ma se penso a mio padre, anche in questo momento mentre viaggia verso Mercurio, non è la prima cosa. La prima è la tenerezza». —



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