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Il corpo umano svelato dall’arte dell’anatomia

Il Musme, punto d’arrivo tecnologico per la grande storia scientifica di Padova

di VINCENZO MILANESI
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di VINCENZO MILANESI

Che Padova sia “città d’arte” è ormai acquisito, non foss’altro che per gli straordinari affreschi che ci hanno lasciato fin dal tempo di Giotto maestri più o meno noti ma sempre di prima grandezza, per arrivare alla contemporaneità con Massimo Campigli che decora l’atrio monumentale del Liviano di Gio Ponti. Lo dimostra l’aumento dei flussi turistici, richiamati non solo da fortunate esposizioni temporanee allestite da alcuni anni a questa parte. Ma c’è da sperare che sia altrettanto acquisita la convinzione che Padova è anche, se non addirittura di più, “città della scienza”. E non solo per il livello della ricerca che si svolge quotidianamente nei laboratori dei Dipartimenti e delle Cliniche della sua Università, ma anche per il ruolo che Padova ha avuto nella genesi della scienza moderna.

Un grande storico della scienza inglese, Herbert Butterfield, ha scritto che “(…) - ammesso che l’onore di essere stata la sede della rivoluzione scientifica possa appartenere a un singolo luogo - tale onore dovrebbe essere riconosciuto a Padova”. E ciò proprio in virtù di quello che la sua Università era ormai da quasi tre secoli, punto di riferimento per tutti i clerici vagantes, i professori di allora che insieme con gli studenti vi giungevano da tutta Europa. Non fu solo la presenza a Padova di Galileo e di Copernico in quei decenni cruciali per la storia della cultura europea a “fare la differenza” con gli altri atenei, aggiunge Butterfield, ma forse ancor di più gli studi di medicina che vi si svolgevano.

Fondamentale la presenza a Padova di un giovane belga che veniva da Bruxelles dopo essere passato da Parigi, Andrea Vesalio, autore del primo atlante anatomico con cui nasce lo studio scientifico del corpo umano condotto “autopticamente”, cioè con un’osservazione diretta attraverso dissezioni di cadaveri nei “teatri anatomici” che allora cominciavano ad essere costruiti in Europa, sull’esempio del primo di essi realizzato proprio a Padova e inaugurato nel gennaio del 1595. Per fortuna, ancora oggi - lo sanno tutti - lo possiamo ammirare al Bo, perfettamente conservato. Ma non tutti sanno che a duecento metri dal Bo c’era una delle prime Cliniche mediche universitarie del mondo moderno, quell’Ospedale di San Francesco Grande che ai primi anni del Quattrocento fu donato alla città da Sibilia de Cetto e dal marito Baldo da Piombino, detto dei Bonafari per il successo delle sue attività commerciali. Proprio lì, giusto nel giro d’anni in cui iniziarono gli studi di anatomia sui cadaveri con le autopsie e non solo sui libri di Ippocrate e Galeno, i professori dell’università cominciarono a portare gli studenti al letto dei malati, per studiare i casi clinici “dal vivo” e non limitandosi a leggere quanto era scritto nei libri dei grandi auctores dell’antichità.

Oggi nell’edificio dell’antico Ospedale di San Francesco, che rimase in funzione fino all’inaugurazione del Giustinianeo alla fine del Settecento, dopo un complesso restauro che l’ha riportato a nuova vita, è stato realizzato un Museo della storia della Medicina che è un piccolo, ma affascinante monumento alla gloriosa Scuola Medica Patavina.

La Provincia di Padova, proprietaria dell’edificio, insieme con Regione, Comune, Università, Azienda Ospedaliera e Asl n.16, ha dato vita a una Fondazione, oggi presieduta da Francesco Peghin, che ha voluto e realizzato il Museo, il Musme, appunto, inaugurato il 5 giugno del 2015. Il progetto scientifico è stato elaborato da un gruppo di studiosi, coordinato da chi scrive queste righe, e l’apertura del museo è stata resa possibile grazie all’imprescindibile contributo della Fondazione Cariparo, ma anche a una joint venture, esempio raro di ben riuscita collaborazione pubblico-privato, con un’azienda padovana, leader a livello non solo nazionale nel campo della formazione medica, la QB Group, di Luca Quareni. Che ha avuto il coraggio, insieme agli studiosi che con lui hanno lavorato al progetto, di accettare la sfida di dar vita a un museo di concezione assolutamente nuova.

Il Musme è nato proprio sulla base non solo delle competenze storico-scientifiche degli studiosi dell’Università, ma anche dell’esperienza che l’azienda ha maturato in ambito di formazione medica, con l’utilizzazione di una multimedialità “immersiva” di assoluta avanguardia che obbliga, per così dire, ad una “visita interattiva”, in cui si possono ammirare alcuni reperti antichi di grande valenza evocativa ma anche essere partecipi e attori di un’esperienza storica straordinaria, quale è stata quella della genesi e dello sviluppo della medicina moderna all’Università di Padova.

Qui, diversamente dai musei tradizionali in cui è “vietato toccare”, è “vietato non toccare”! Come del resto è doveroso, per un museo che non vuol essere tanto un’oasi, quasi un’Arcadia accademica, di cultura per pochi eletti, quanto piuttosto, pur nel rispetto della più rigorosa storiografia medico-scientifica, un’iniziativa di crescita culturale per tutti. E soprattutto dei più giovani.

Il successo è stato notevole già in questo primo anno di attività, non solo presso le scolaresche - ne sono venute oltre trecento- ma anche con un numero di visitatori dell’ordine di grandezza delle decine di migliaia, pur in assenza di campagne promozionali per le quali la Fondazione Musme non ha avuto sinora sufficienti finanziamenti. Perché la scommessa è quella di far vivere il museo con un minimo di fondi pubblici per il “metabolismo basale”, di farlo cioè camminare con le sue gambe, senza onerosi contributi richiesti alla collettività cui pure rivolge un servizio di diffusione della cultura medico-scientifica di notevole rilievo. In questi mesi al Musme è stata allestita anche un’esposizione temporanea, curata da Maurizio Rippa Bonati e Silvia Ferretto, su “arte ed anatomia” (che ha avuto una splendida recensione - con grande apprezzamento anche per l’intero museo - sulla prestigiosissima rivista medica inglese “The Lancet”), all’interno della quale sono esposte due splendide tavole dipinte all’inizio del Seicento da Fabrici d’Aquapendente, prestate dalla Biblioteca Marciana, dalla quale escono per la prima volta nella loro storia secolare, che è davvero un peccato non ammirare dal vivo. Le tavole sono arrivate da qualche giorno e le si potrà ammirare solo fino a gennaio prossimo.

Un museo, va da sé, non è fatto per essere raccontato, ma per essere visitato, per essere “vissuto”. E ci auguriamo che così sia e continui ad essere. Anche per i padovani, oltre che per i turisti.

Piuttosto che piangersi addosso per tutto ciò che a Padova non va, non sarebbe meglio valorizzare le tante potenzialità inespresse, che pure ci sono, come si è tentato di fare con il Musme?

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