In evidenza
Sezioni
Magazine
Annunci
Quotidiani GNN
Comuni

Antonio Bortoluzzi e “Il saldatore del Vajont”: «Racconto il prima e il dopo di una tragedia collettiva»

Lo scrittore bellunese: «Ecco il mio Vajont visto con gli occhi di un saldatore, luogo di meraviglia e orrore, dolore e ingiustizia»

Nicolò Menniti-Ippolito
Aggiornato 3 minuti di lettura
Lo scrittore bellunese Antonio G. Bortoluzzi 

La diga del Vajont Antonio G. Bortoluzzi la vede ogni giorno, quando scende dal suo Alpago per entrare in fabbrica a Longarone. Eppure, a lungo è stata una presenza assenza, un ricordo tenuto a distanza, mentre nei suoi libri raccontava la vita della montagna, la realtà della fabbrica, in equilibrio tra un mondo antico da conservare e un mondo contemporaneo che non ha senso negare. Poi all’improvviso quella diga è diventata una presenza ineludibile, un monito e un ricordo, il segno di un dolore che ha segnato non solo un paese, ma un’intera valle. E così è nato “Il saldatore del Vajont” (Marsilio, p. 144, 15 euro), in cui in modo personale ma anche collettivo – perché ognuno in valle ha vissuto il suo Vajont – si torna dopo sessant’anni esatti sul luogo di una tragedia che ha segnato un’epoca.

La diga del Vajont 

Il libro parte da una visita guidata alla centrale e alla diga. È nata in quel momento l’idea di questo racconto?

«In quella lunga giornata nella caverna di Soverzene, poi nelle gallerie e su fino al coronamento della diga, avevo un solo pensiero di fronte ai manufatti, alla tecnica, alla perizia, all’intelligenza, ai lavori eseguiti a regola d’arte: com’è stato possibile che quella bravura, quel saper fare, quella scienza abbiano concorso al disastro del 9 ottobre 1963? Ma non c’era l’idea di un romanzo, solo una domanda».

In qualche modo la diga è anche il simbolo – nel bene e nel male – del miracolo economico e dei suoi limiti?

«Ecco, se non riusciamo a calarci in quegli anni pieni di ebbrezza industriale, di grande crescita, del desiderio diffuso di modernità (cose molto concrete: case comode, servizi igienici, lavatrice, auto, e poi cinema, tivù, vacanze al mare) non riusciamo forse a capire la posta in gioco: il desiderio diffuso di beni, consumi. .. energia elettrica. E il disastro del Vajont, al tempo in cui solo pochi luminari avevano coscienza del tema ambientale, ci ha mostrato la crisi, la rottura, il “problema” della potenza tecnico-economica dell’uomo».

La diga del Vajont 

Il libro racconta la diga dalla parte di chi ci ha lavorato. È questo il senso del “saldatore” del titolo?

«Sì. L’io narrante, un sessantenne affascinato da ciò che vede e tocca – è stato saldatore di carpenterie metalliche – lavora da quarant’anni e il mondo del cantiere, delle macchine, della produzione è il suo mondo, quello dei lavoratori della fabbrica nella zona industriale di Longarone, sotto la diga. Un luogo di lavoro nato dove si è abbattuta l’onda della morte, della cancellazione totale».

In che modo la memoria personale (i giochi, la scoperta del bosco, del fiume) si è legata al racconto della diga?

«Accade a chi scrive storie, più che a chi studia: alcune immagini o situazioni ne evocano altre, quasi come nell’esperienza del sogno in cui piani e livelli si intrecciano, si capovolgono. Il protagonista-saldatore si avvia alla vecchiaia e ha un paio di preoccupazioni: che non allunghino l’età della pensione e che qualche esame medico non annunci una brutta malattia. Il ricordo della giovinezza arriva potente e puro a dire che la sua vita ha avuto momenti di grande intensità, che cogli solo adesso. Credo accada qualcosa, verso la fine del romanzo: questo io così ingombrante e preoccupato delle piccole cose incontra il noi, la collettività, attraverso il dolore, il senso d’ingiustizia».

La diga durante la visita è insieme meraviglia e orrore. Prevale uno dei due sentimenti?

«Dopo esserci stato tante volte in questi mesi, penso che la diga del Vajont sia così universale perché riporta a noi la meraviglia che deriva dall’orrore. Quasi nessuno va a visitare la diga del lago di Centro Cadore, a Sottocastello, o altre dighe, lì non è accaduta la tragedia».

Nei suoi libri ha raccontato spesso la montagna e più in generale la natura, ma ha sempre avuto grande attenzione anche per la tecnologia e per il suo uso. Possono convivere le due cose?

«Sbilanciate, ma convivono. Mi sembra che tutte le risposte alle crisi ambientali passino attraverso sviluppi tecnici. Pensiamo solo alle energie rinnovabili, oppure a un’allerta meteo per proteggere persone e cose: un grande impianto tecnologico di informazione. E su questo c’è da riflettere. Tentiamo una riflessione: oggi, molti di noi, hanno timore della tecnica, come i nostri antenati avevano timore della natura e tutte le tecniche in loro possesso erano usate per difendersi dalla natura incontrollabile. Oggi è giusto avere più paura della tecnica e, siccome sono nato negli anni Sessanta, per me “la grande paura tecnica” è rappresentata dalle armi termonucleari: le bombe atomiche che possono distruggere il pianeta più e più volte. Quindi sì, attenzione all’intelligenza artificiale, alla plastica, ma la pace nel mondo e il disarmo nucleare di quando eravamo giovani?».

Sul piano della scrittura il libro unisce precisione descrittiva ed emozione. È stato difficile farle convivere?

«Lo considero un grande complimento. Per me non è stato difficile, al contrario. Se questa fusione è accaduta la può sentire e dire solo il lettore».

Se dovesse indicare un libro che le è servito per scrivere questa storia quale sceglierebbe?

«Sono tanti. Mi sento di citare almeno: “Sulla pelle viva” di Tina Merlin, “Il Grande Vajont” di Maurizio Rebershak, “Il Racconto del Vajont” di Marco Paolini e Gabriele Vacis e un libro fotografico “Vajont, l’acqua e la terra” di Fiorello Zangrando con le foto di Bepi Zanfron. Poi le pubblicazioni tecnico-scientifiche, di memorialistica».

I commenti dei lettori