
Il film "Rapito"
Cinema al 100 per cento, ecco le recensioni dei film in sala dal 25 maggio
“Fresco” di Cannes, arriva al cinema il nuovo, potente, film di Marco Bellocchio – Rapito – storia vera di un bambino ebreo sottratto alla famiglia dalla Chiesa per essere cresciuto nella fede cattolica nella Bologna del 1858. “Sanctuary”: un solo set e due attori per un film sui rapporti di forza e sulle dinamiche dominatore/dominato con una “folle” Margaret Qualley
RAPITO | SANCTUARY
RAPITO
Regia: Marco Bellocchio
Cast: Paolo Pierobon, Barbara Ronchi, Fausto Russo Alesi, Fabrizio Gifuni, Enea Sala, Leonardo Maltese
Durata: 125’
Nel 1858 Bologna fa parte dello Stato della Chiesa. Una notte di inizio estate alcuni gendarmi pontifici, su ordine dell’inquisitore Felletti (Fabrizio Gifuni), si presentano a casa di Momolo (Fausto Russo Alesi) e Marianna Mortara (Barbara Ronchi), una famiglia ebrea con otto figli: hanno il compito di “prelevare” il sestogenito Edgardo (Enea Sala da bambino, Leonardo Maltese da adulto), battezzato di nascosto dalla sua ingenua nutrice quando aveva pochi mesi. Per il diritto canonico Edgardo deve essere educato, anche coattivamente, alla fede cattolica, sotto la custodia di Pio IX (Paolo Pierobon), l’ultimo Papa Re che, con feroce intransigenza, rifiuterà sempre di restituire il bambino alla famiglia, sfidando la comunità ebraica in un momento storico in cui uno Stato stava morendo (quello della Chiesa) e un altro stava nascendo (la futura Italia della breccia di Porta Pia).
Con “Rapito” (presentato in concorso a Cannes), Marco Bellocchio porta al cinema una storia vera e sconvolgente, raccontando a modo suo l’ennesima sfida al Potere che, in questo caso, diventa cronaca di una sconfitta (Edgardo Mortara non abdicherà mai dalla “fede coatta” e morirà, anziano, in un monastero senza ricongiungersi alla famiglia), negazione di una identità.
Il punto di partenza è una minuziosa e filologica ricostruzione storica, illuminata da una inquieta fotografia caravaggesca e vermiglia, che Bellocchio incastona con le sue invenzioni e ucronie, come ci ha abituati sin dai tempi di “Buongiorno, notte” e, di recente, con “Esterno notte”, entrambi incentrati su un altro, più famoso, rapimento della Storia (quello di Aldo Moro). Il Cristo, liberato dai chiodi piantati dagli ebrei, che scende dalla croce, si aggira tra gli uomini, come il presidente della DC fuggito dal suo nascondiglio, nel sogno pacificatorio di Edgardo, incastrato tra le memorie di famiglia (con rigurgiti ribelli e rabbiosi contro chi gli ha usato una violenza inaudita) e la cieca fedeltà in nome del Papa Re.
È un conflitto che Bellocchio (da sempre attratto dal mistero della fede) sottolinea più volte nel montaggio parallelo delle diverse liturgie, prima di sfociare nella rappresentazione della efferatezza morale di una istituzione che ha nella figura di Pio IX il proprio baluardo immune dal giudizio terreno: il suo “non possumus” di fronte alle richieste di restituzione del bambino è il motto di una Chiesa al di sopra di tutto, capace di congedare il dramma con un serafico cenno di capo.
“Rapito” è un film potente, soprattutto nella prima parte, che concede qualcosa nel finale di cui, sorprendentemente, Bellocchio fatica a tenere le redini come se lo slancio incontenibile del film dovesse, infine, pagare dazio con qualche peccato didascalico. Ma resta una testimonianza estremamente importante, il racconto di un dramma consumato nelle risacche di una brutale carità cristiana.
Voto: 7,5
***
SANCTUARY
Regia: Zachary Wigon
Cast: Margaret Qualley, Christopher Abbott
Durata: 97’
Il film "Sanctuary"
“Sanctuary” è la parola d’ordine per porre fine a un gioco. Ma se il gioco si intreccia con la realtà, non esiste uscita ma solo una lenta e inesorabile implosione dei giocatori stessi. Siamo all’interno di una lussuosa stanza di hotel: in scena solo due personaggi. Hal (Christopher Abbott) è il rampollo di una famiglia che possiede una famosa catena di alberghi. Rebecca (Margaret Qualley) è una avvocatessa che ne deve valutare l’idoneità a diventare CEO.
Ma il rapporto tra i due non è quello che sembra … Zachary Wigon firma con “Sanctuary” un “kammerspiele” dal sapore hitchcockiano (e il nome di lei non fa che ricordarcelo …) tutto giocato sulla dinamica dominatore/dominato, carnefice/vittima, verità/apparenza con un continuo scambio di ruoli e di prospettive che ha come simulacro ultimo e finale il concetto di potere (non necessariamente economico) che, in fondo, plasma tutti i rapporti (ma con sorpresa finale). Il meccanismo, pur non essendo originale, è interessante anche se, alla lunga, mostra la corda e risulta, inevitabilmente, troppo scritto e programmatico.
Resta sul terreno in cui si consuma questo agone una contemporanea riflessione sui rapporti di forza, la loro crudeltà e interdipendenza da cui è (quasi) impossibile uscire.
Voto: 6,5
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