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Soldi agli studenti più bravi. Lucangeli: «Studiare per denaro o per i follower non è educativo, anzi indebolisce»

L’esperta di Psicologia dell’apprendimento critica il bonus da 100 euro ai più bravi dell’istituto padovano Scalcerle. «Esiste un “mal di scuola” che deriva dall’ingozzamento cognitivo: ai giovani chiediamo solo nozioni»

elvira scigliano
2 minuti di lettura

La professoressa Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dello sviluppo all’Università di Padova, esperta di psicologia dell’apprendimento

 

La scelta a Padova dell’istituto superiore Scalcerle di premiare con 100 euro gli studenti meritevoli – cioè che hanno almeno 9 di media – ha aperto un dibattito sull’idea stessa di formazione scolastica. Una domanda soggiace a questo serrato confronto tra dirigenti, insegnanti, studenti e genitori: qual è il ruolo della scuola nella nostra società?

Proviamo ad approfondire questa domanda con la professoressa Daniela Lucangeli, che è docente di Psicologia dello sviluppo all’Università di Padova, esperta di psicologia dell’apprendimento, membro di associazioni scientifiche nazionali e internazionali e presidentessa dell’Associazione per il coordinamento nazionale degli insegnanti specializzati. Ma soprattutto i suoi contributi alla ricerca – tradotti in libri dal linguaggio comprensibile – indicano la strada maestra dell’educazione a tantissimi genitori.

Professoressa, va bene che la scuola punti sul merito e sulla performance dei ragazzi?

«Non va bene l’ingozzamento cognitivo. Da almeno 8 anni i dati scientifici ci dicono che questo provoca un fenomeno di malessere psichico, una sorta di “mal di scuola”, con sintomi perfettamente riconoscibili nella maggior parte dei ragazzi: demotivazione, ansia, paura, rabbia, insoddisfazione, noia, disistima, tutte situazioni di allerta per il nostro cervello.

La variabile cognitiva che alimenta questo malessere sta proprio nell’obesità informazione: informazioni, su informazioni, su informazioni, come se questo potesse ampliare lo spazio del pensare e dell’intelligenza. Invece crea solo fattori di allerta, rischio, abbandono, assenza di passione e desiderio I nostri studenti dicono basta perché sono saturi. Non possiamo proporre una scuola che aumenta all’infinito il numero delle informazioni».

Cosa rischia uno studente?

«Questo è un problema che ha a che fare con dinamiche profonde: il cosa è desiderabile. Il punto è che non sappiamo motivare i ragazzi al desiderio del sapere come fonte di autodeterminazione».

Perché?

«Perché utilizziamo la verifica e il giudizio come costante ed unico riferimento: nessun adulto accetterebbe mai di essere sottoposto a costante giudizio nel suo lavoro o in qualsiasi altra parte della vita».

Non bisogna valutare la preparazione dello studente?

«La valutazione formativa è un processo educativo. Il giudizio prestazionale continuo è tutt’altra cosa e genera, appunto, un allerta continuo per tutti, bambini e adulti, docenti compresi. Non è questa l’idea di scuola che può potenziare lo sviluppo migliore di ciascuno».

I prof sbagliano a dare voti e, adesso, denaro?

«Dobbiamo essere capaci di vedere tutto. Se ci siamo salvati come Paese, anche rispetto alla pandemia, lo dobbiamo anche agli insegnanti che fanno i salti mortali. Servono nuovi paradigmi, con la ricompensa non si nutrono le emozioni o l’intelligenza. I soldi o i follower sono un rinforzo estrinseco: ti dicono di correre per avere la carota.

I rinforzi estrinseci sono una forma elementare di gestione della motivazione e non sono sufficienti. Anzi, rischiano di essere dannosi perché si sostituiscono alla motivazione intrinseca: il piacere dell’apprendimento, la condivisione dello sforzo con chi ti sta aiutando, l’insegnante.

Il beneficio genera un’illusione, che il bene – il denaro, i follower, la soddisfazione stessa – sia fuori di noi, invece il desiderio deve essere dentro d noi. Altrimenti si crea una dipendenza da altro e non si educa ma si indebolisce. Non c’è autodeterminazione ma eterodeterminazione e viene a mancare il passaggio evolutivo che grazie al quale diventiamo adulti.

Il modello in cui io insegno, tu apprendi, io verifico, non va bene. La rappresentazione di questo modello è la scatola cognitiva che cerca di mantenere quanto più fedelmente possibile le informazioni date, come fossero messe in frigorifero: più le ripeti identiche, più sei bravo. La risposta cognitiva è evidentemente l’apprendimento passivo.

Nulla a che vedere con la capacità di nutrire i processi intelligenti, un flusso interattivo che mette in gioco non solo l’informazione data, ma intercetta anche quello che il giovane sa, le sue mappe cognitive – che comprendono anche gli errori – e la risposta che torna indietro è così arricchita di informazioni ed emozioni. Il suo capire e sentire».

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