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Sanità, liste d’attesa nell’Usl 6. Fortuna: «Così le taglieremo»

Il direttore generale Paolo Fortuna: «Incontro con i primari per fare rete negli ospedali. Acquisteremo ore in libera professione dai medici per tenere aperti i Pronto soccorso»

In due anni da direttore generale dell’Usl 6, la più grande del Veneto, Paolo Fortuna si è trovato a fronteggiare una pandemia e un attacco hacker che ha bloccato il sistema per giorni.

Sfide che ridisegnano certezze e visioni. Ora che è all’ultima curva del mandato, i principi fondamentali che lo guidano sono l’azione sugli stili di vita delle persone, il corretto utilizzo delle risorse sanitarie da parte dei cittadini e capacità di riorganizzare i servizi: «Se non serve lo chiudo e se serve e non c’è lo devo creare» dice.

Dottor Fortuna, uno dei grandi temi che hanno accompagnato la pandemia è stata la necessità di recuperare le liste d’attesa una volta finita l’emergenza. A che punto siete?

«Sul 2021 – quando avevamo Schiavonia e Cittadella di fatto chiusi – abbiamo recuperato il 98,5% delle prestazioni. Adesso che la macchina è ripartita paghiamo lo scotto della mancanza di professionisti.

Fatichiamo a trovare oculisti, dermatologi e neurologi, per non parlare di medici di pronto soccorso e anestesisti. Martedì ho avuto due incontri con i primari dei servizi di pronto soccorso e di anestesia e rianimazione. Lo scopo è di lavorare in rete su quattro ospedali per darsi una mano».

Come funziona?

«Quello che cerchiamo di fare è colmare le carenze attraverso l’acquisto di ore in libera professione o a gettone dai dipendenti.

Una volta terminato il loro turno, i medici possono dare disponibilità per coprire turni: ad esempio nel pronto soccorso di un ospedale diverso da quello di appartenenza.

È un lavoro di rimaneggiamento organizzativo costante con l’obiettivo di mantenere aperti tutti e quattro i servizi. Alle cooperative si ricorre solo quando non abbiamo più disponibilità di concorsi a tempo indeterminato, determinato, abbiamo usato tutta la disponibilità di acquisto e non abbiamo libera professione».

Il ricorso alle coop ha suscitato molte polemiche, a partire dai costi.

«Credo che il problema si smonterà tra qualche anno grazie all’aumento dei posti nelle scuole di specialità. Nel frattempo, quando non troviamo soluzioni interne, questo ci permette di garantire i servizi.

La mancanza di medici si ripercuote un po’ su tutte le specialità, con fatica maggiore a reperirne nelle professioni più usuranti come, appunto, l’emergenza.

I giovani scelgono attività più confacenti a un nuovo modello di vita. Alcuni corsi non vengono coperti e questo vale anche per i corsi di laurea per infermieri. Questo deve spingerci a interrogarci se sia solo un problema economico o ci siano altre motivazioni».

Si parla di un accordo con l’Azienda Ospedale Università per smaltire ulteriormente le liste d’attesa. A che punto siete?

«Con Dal Ben (dg dell’Azienda ospedaliera Università di Padova) abbiamo intensificato i rapporti per garantire la copertura globale del territorio dell’Euganea. È evidente che non posso dire a un padovano di città di andare a fare una visita cardiologica a Schiavonia.

Adesso i Cup (Centro unico prenotazione) hanno due sistemi informativi ma una delle azioni che sta prendendo piede in modo importante è il Sio, il sistema informativo ospedaliero che andremo a implementare e che assorbirà la gestione del Cup.

È questione di poco tempo. L’indirizzo della Regione è di arrivare al Cup unico regionale: a quel punto il cittadino si potrà prenotare la visita dove ritiene opportuno e verranno superate anche le difficoltà territoriali di chi vive nelle zone più periferiche della provincia».

Parlando di sistemi informativi: poco più di un anno fa siete stati colpiti da un attacco hacker. Qual è la situazione oggi?

«L’indagine è ancora in corso ma nei primi giorni, in cui non conoscevamo nemmeno l’entità dell’attacco, è stato fatto un grandissimo lavoro di squadra per garantire i servizi, scrivendo sulla carta.

Staccare le spine è stato drammatico in quel momento sapendo che dovevi garantire gli interventi. Da allora ci siamo ripresi e abbiamo fatto grossi investimenti con una ricostruzione molto profonda del personale.

Oggi abbiamo un nuovo dirigente dell’informatica, nuovi responsabili che ci hanno permesse di azzerare tutto e ripartire. Stiamo lavorando a un livello molto alto di cybersicurezza che ci consentirà di entrare in sistemi come il Sio con grande tranquillità».

Il limite delle strutture pubbliche è stato non pensare che potesse succedere.

«La sicurezza al 100% non ce l’avrai mai perché c’è un’evoluzione costante degli attacchi, ormai all’ordine del giorno. Quello che è avvenuto in “tempo di guerra” è stato aumentare l’attenzione che ora è costante: ormai abbiamo password con doppia verifica, corsi di aggiornamento e sensibilizzazione del personale».

Il Pnrr apre a grandi investimenti come le case di comunità: qual è l’idea rispetto al contenuto, ci saranno professionisti sufficienti?

«Dal Pnrr avremo 119 milioni da spendere entro il 2026. Le case di comunità dovranno essere riempite coinvolgendo anche la medicina territoriale, fermi restando gli ambulatori di prossimità».

Potrebbero diventare una sorta di medicine di gruppo integrate?

«I medici non possono non esserci, vedremo quale sarà il modello una volta definito. Un ruolo molto importante sarà rivestito dall’infermiere di famiglia che coadiuverà il sistema salute territoriale in un modo che con il Covid abbiamo visto essere determinante.

 Quello che mi preoccupa, in prospettiva, è l’evoluzione del nucleo familiare, perché senza struttura l’Assistenza domiciliare integrata è molto difficile da organizzare. Abbiamo aumento l’Adi del 10% rispetto alla soglia di performance: stiamo gestendo un po’ meno persone ma più gravi. Per quanto tempo riusciremmo a farlo?

Servono i caregiver (cioè chi bada ai fragili) altrimenti la soluzione diventa l’Rsa. Sono cose importanti su cui decideremo la programmazione. Siamo in una fase di forte evoluzione: oggi mettiamo le basi delle esigenze che avremo tra 30 anni.

Un’altra cosa su cui è importante riflettere sono le ricadute della denatalità, considerando che ormai anche gli immigrati, dopo un anno, si adeguano al nostro stile.

E poi ci sono i problemi di salute mentale che stanno emergendo tra i giovani: ragazzi molto fragili in un contesto sociale che rimane difficile».

Li state potenziando?

«Posto il problema di reperire psichiatri, il tentativo è di spostare un po’ il focus dalle patologie classiche a quelle emergenti legate al disagio giovanile».

Il rapporto con i medici di medicina generale sembra sempre un po’ conflittuale. Come stanno le cose?

«Abbiamo un obiettivo comune che è la salute del cittadino, per cui la collaborazione è necessaria. Dobbiamo riconoscere le rispettive difficoltà: loro sono provati da richieste, dalla tensione. Noi non abbiamo soluzioni a portata di mano, per quanto stressiamo i modelli organizzativi. Ma credo che la strada insieme non sarà in salita».

Cosa si può migliorare?

«Il dialogo è fondamentale. Dobbiamo trovare il modo di lavorare insieme tenendo conto dell’evoluzione della sanità, dalla telemedicina alle case di comunità.

Noi, tuttavia, dipendiamo molto dalle regole nazionali. Un aspetto positivo è la disponibilità dei sindaci che cercano di favorire la medicina di prossimità mettendo a disposizione sedi».

Crede che il Sant’Antonio dovrebbe tornare all’Usl?

«Non è importante, così come non lo è che i medici di famiglia siano dipendenti. L’unico indicatore importante è lo stato di salute della gente. Se questo modello ci aiuta a garantire un buon livello di salute il resto non è un problema. Non è il modello organizzativo che ci deve tracciare la strada, l’obiettivo è il concetto di one health. Se in seguito vedremo che c’è un altro modo per fare le cose, ci penseremo».

Quali sono i suoi obiettivi per quest’anno?

«Migliorare le liste di attesa e l’informatizzazione, e ancora Pnrr e piani di zona. Le risorse devono essere ottimizzate».

Serve un’elasticità diversa?

«Il Covid ci ha insegnato a dare risposte a istanze nuove in Rsa, disabili, gestione dei contagi. Il concetto della flessibilità organizzativa a più basso costo possibile deve portare alla sburocratizzazione del sistema. E dobbiamo riprenderci la scientificità della sanità che non deve essere un’opinione».

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