«È padre di una terrorista dell’Isis»: per il papà di Meriem niente cittadinanza italiana
Il Ministero dell’Interno ha respinto l’istanza: «Questa è un’ingiustizia»
Enrico Ferro
Niente cittadinanza italiana per Redouane Rehaily, operaio specializzato marocchino con cinque figli a carico e una casa comprata con il mutuo. Le colpe dei padri non dovrebbero ricadere sui figli e invece stavolta sembra proprio che le colpe di una figlia si abbattano irrimediabilmente su un padre. Perché Redouane è il papà di Meriem Rehaily, la ragazza fuggita da Arzergrande a 19 anni per andare a combattere in Siria con lo Stato Islamico. “Il Ministero ha motivato il diniego sulla base di elementi che non consentirebbero di escludere possibili pericoli per la sicurezza della Repubblica”. Con questa motivazione il Tar del Lazio ha rigettato il ricorso che Redouane Rehaily aveva promosso, contro la decisione del Ministero dell’Interno di negargli la cittadinanza. «Ma io non ho fatto niente», si dispera l’operaio. «Ho sempre collaborato con i carabinieri, sono una brava persona e un onesto lavoratore. Questa è davvero un’ingiustizia».

Per la Legge lui è un “lungosoggiornante”, cioè un possessore di Carta di Soggiorno illimitata, rilasciata nel 2012 proprio in virtù del suo status di lavoratore e padre di famiglia, nonché di proprietario di un’abitazione. La cittadinanza italiana però gli consentirebbe di godere di alcuni importanti diritti e doveri, tra i quali essere iscritti alle liste elettorali, esercitare il diritto di voto e muoversi liberamente all’interno dei Paesi della Comunità europea. Inoltre con la cittadinanza non rischierebbe più l’espulsione dall’Italia, cosa che invece potrebbe accadere in caso di revoca della carta di soggiorno, che teoricamente può scattare quando uno straniero si macchia di gravi reati.

Meriem Rehaily oggi ha 25 anni. A luglio del 2015 lasciò di punto in bianco la famiglia e la sua vita da studentessa a Piove di Sacco per arruolarsi nell’Isis. A giugno 2018 eccola ricomparire nel campo di Roj, una tendopoli in mezzo al nulla nel nord est della Siria, dove l’intelligence curda teneva in custodia un migliaio di mogli dei miliziani del Califfato con i loro bambini. Meriem, che in Italia è stata condannata in contumacia a quattro anni per terrorismo, è stata sistemata in una tendopoli con le figlie avute dal marito palestinese durante la permanenza a Raqqa.
La richiesta di cittadinanza del padre risale al 2017 ed è stata presa in carico dal Ministero dell’Interno negli anni successivi: il primo diniego è stato espresso ufficialmente il 15 febbraio 2022. Tra il 2017 e il 2022 hanno ricoperto il ruolo di ministri dell’Interno prima Marco Minniti, poi Matteo Salvini e infine Luciana Lamorgese.
“Trattasi, tuttavia, di una vicenda (quella di Meriem) che non ha nulla a che vedere con il ricorrente (Redouane Rehaily), il quale non ha mai manifestato alcuna approvazione e/o accondiscendenza verso lo Stato islamico e/o verso azioni di terrorismo compiute in Italia o nel resto dell’Occidente”, scrivono gli avvocati Dario Suriano e Giada Erminia De Paola nel ricorso presentato al Tar del Lazio. “Il ricorrente inoltre non ha mai avuto contatti con la figlia, se non per informarsi sulle sue condizioni di salute e per convincerla a rientrare in Italia, abbandonando le milizie dell’Isis ed i propositi terroristici”.
I legali del foro di Padova definiscono le conclusioni del Ministero dell’Interno “stereotipate” e “senza alcun approfondimento istruttorio e senza la previa instaurazione di alcun contraddittorio”, sulla base di questo “sospetto di pericolo per la sicurezza nazionale”.
Il 17 febbraio scorso è arrivata una nuova doccia fredda per Rehaily, che si è visto rigettare il ricorso, come deciso dai magistrati del Tar del Lazio Floriana Rizzetto (presidente), Enrico Mattei (consigliere) e Gianluca Verico (estensore).
«Ma io non mi arrendo, perché so che non ho fatto niente di male» ripete il cinquantenne di Arzergrande, convinto a ricorrere al Consiglio di Stato per fare valere quello che considera un suo diritto. «Il titolare dell’azienda per cui lavoro ha firmato numerosi attestati di stima nei miei confronti. Anche i carabinieri di Piove di Sacco e Codevigo sanno che sono una brava persona. Se mia figlia ha sbagliato, non posso pagare io».
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