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Padova, una donna forte e un bimbo ebreo protagonisti del romanzo di Manuela Faccon

Dal 28 febbraio in libreria “Vicolo Sant’Andrea 9” della padovana Manuela Faccon, docente di spagnolo. Una vicenda che inizia nel 1943. L’autrice:«Racconto la storia di una vita travolta dal coraggio e dai segreti, che ha radici in famiglia»

Nicolò Menniti-Ippolito
3 minuti di lettura
Manuela Faccon, docente di spagnolo, in libreria con il suo primo romanzo ambientato a Padova 

Padova è la grande protagonista. Prima negli anni della guerra, con la caccia agli ebrei da parte delle camicie nere e dei tedeschi. Poi nell’immediato dopoguerra, quando le ferite aperte non vengono richiuse. Infine al termine degli anni Cinquanta, quando la storia al centro di “Vicolo Sant’Andrea 9” (Feltrinelli, pp 288, 18 euro), dal 28 febbraio in libreria, si chiude aprendo a una nuova speranza.

L’autrice, esordiente, è Manuela Faccon, padovana doc, docente di spagnolo, appassionata di danza e di libri. E questa storia, con al centro una donna che prova a salvare un bambino ebreo e per questo vede travolta la propria vita, finisce in manicomio, diventa portiera in uno stabile dove i segreti di un tempo si rivelano, ce l’ha dentro da sempre.

La copertina del libro di Manuela Faccon 

Il libro è costruito intorno a due nuclei che hanno a che fare con la sua storia familiare.

«Tutto parte da una persona realmente esistita, una mia prozia, una figura forte come lo erano le donne di quell’epoca, che però nascondeva un segreto. Per molti anni ho cercato di carpirlo, ma non ci sono mai riuscita; c’è riuscito solo mio padre pochi giorni prima che morisse, quando lei raccontò finalmente che suo padre, il mio bisnonno, era stata ricoverato in manicomio. C’era anche, in famiglia, la storia di un bimbo abbandonato e accolto. Da anni mi occupo di ricerche genealogiche e cosi, consultando gli archivi storici della ruota e le cartelle cliniche dell’Ospedale ai Colli sono riuscita a ricostruire parti di queste storie che poi sono confluite nel libro, centrifugate però con altre storie in parte vere ma soprattutto inventate».

Anche la parte ebraica viene dalla storia di famiglia?

«Il mondo ebraico mi ha sempre affascinato. Passeggiare nelle strade del ghetto lascia sempre un senso di disagio, pensando a ciò che è successo. Questa prozia, a cui si ispira il personaggio principale del libro, ha lavorato per molti anni al servizio di una famiglia ebrea che poi è stata prelevata, portata a Villa Venier a Vo’Vecchio, deportata senza più fare ritorno. Da poco hanno collocato una pietra d’inciampo in via Roma, all’altezza del numero 10, dedicata a Marcello Levi Minzi che da quel che ho potuto ricostruire era il figlio del datore di lavoro della mia prozia. E ricordo che anche molti anni dopo la guerra veniva qualche volta a trovarla una signora, Graziella Viterbi, che era cugina dei Levi Minzi e apparteneva al ramo che si è salvato».

C’è poi il mondo della campagna prima, durante e dopo la guerra. Memoria o ricostruzione storica?

«Tutte e due. È stato fondamentale per me un libro come “Pane nero” di Miriam Mafai che racconta la vita quotidiana di quegli anni, soprattutto al Nord. Lì ho trovato veramente ogni indicazione sia di carattere sociale che di carattere economico; come si comportavano le donne, cosa mangiavano, come si truccavano, come vivevano nei giorni dopo l’8 settembre. Poi però molte cose vengono dai racconti di mia nonna, per esempio il fatto che andassero a rifugiarsi sottoterra durante i bombardamenti. E come nel libro in una di queste occasioni è morto uno dei fratelli della mia prozia».

Il personaggio del fascista responsabile delle sofferenze della protagonista è anch’esso storico?

«No, è inventato ma sulla base di quanto è realmente avvenuto. Tutti a Padova conoscono le imprese feroci della Banda Carità. Il personaggio del prete che aiuta la protagonista è invece modellato sul parroco della mia parrocchia di origine, che venne deportato a Dachau. È stato poi il parroco dell’Internato Ignoto, dove c’è il giardino dei Giusti».

C’è una grande precisione topografica nel libro.

«Sì, è la Padova che conosco, in cui ho vissuto. Ogni riferimento, quando la mia protagonista si muove sia in città che in campagna, è preciso e verificato, perché volevo che corrispondesse alla realtà. Anche la merceria di cui parlo nel libro esisteva effettivamente, anche se qualche numero civico più in là, e apparteneva a un mio parente, per cui ricordo il fascino di stare in mezzo a quelle stoffe».

Una storia covata a lungo. È stato importante anche frequentare una scuola di scrittura?

«Io vengo dalla scrittura saggistica e quando ho deciso di raccontare in un romanzo questa storia ho cercato scuole che mi aiutassero a farlo. Quando da Padova mi sono trasferita ad Este un po’ per caso ho letto della Palomar e di Mattia Signorini a cui ho raccontato il mio progetto, che era allora un po’ diverso, e lui lo ha accettato. Lì e poi dal confronto con gli editor della Feltrinelli il libro ha preso la sua forma definitiva».

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