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Crepet sulla figlia che ha ucciso la mamma: «Nessun raptus. Un odio così cresce nel tempo»

Per l’omicidio di San Martino di Lupari lo psichiatra non crede al delitto d’impeto, anche senza premeditazione giuridica. «Per compiere un gesto tanto efferato, bisogna avere dentro un grande risentimento»

Cristiano Cadoni
2 minuti di lettura

Da sinistra la vittima, Maria Angelo Sarto, lo psichiatra Paolo Crepet, e la figlia e sospetta matricida Diletta Miatello

 

Un raptus, è il sospetto. Una furia omicida improvvisa, provata dal fatto che Diletta Miatello avrebbe colpito a morte i suoi genitori con suppellettili di casa, i primi oggetti trovati a portata di mano.

Ma Paolo Crepet, psichiatra, sociologo e saggista, non crede al delitto d’impeto. Non come il più classico dei fulmini a ciel sereno. «Di fronte al fatto di San Martino di Lupari potremmo essere portati a pensare che da un momento all’altro chiunque - una figlia, una compagna, una moglie - potrebbe scagliarsi contro di noi o fare una strage», attacca lo psichiatra.

«Ma non funziona così, le cose avvengono in modo diverso. L’odio, il risentimento, maturano con tempi più lunghi, man mano che si dilata la distanza affettiva».

Però alla donna, al momento, non è contestata la premeditazione...

«Esistono due diverse forme di premeditazione. Quella giuridica, che può essere contestata dal giudice, si basa su minacce esplicite, su episodi che possano far pensare a un’escalation di violenza.

Dal punto di vista psicologico, però, la premeditazione è un’altra cosa. Se una persona arriva a compiere un gesto tanto efferato, deve avere dentro tutto quello che l’atto determina.

Nessuno si sveglia una mattina ed è improvvisamente un assassino. Il risentimento che porta a uccidere cresce con moderazione, e gradualità, quindi nel tempo. Poi l’ultimo atto può anche essere iracondo e compulsivo».

Sorprende, sempre che sia stata lei a uccidere, la lucidità mostrata dalla donna nelle ore successive al delitto: la pulizia quasi maniacale della casa, la doccia, il telefono spento, la camera in albergo. Tutte mosse guidate da una strategia precisa.

«No, non dobbiamo sorprenderci. È spesso nell’identikit di chi commette un fatto del genere. L’assassino - e non parlo dei professionisti - sa essere lucido. La letteratura è piena di casi simili.

C’è spesso una continuità nella cifra dell’indifferenza, che porta prima a uccidere e poi a tornare alla normalità. Ricordiamo tutti il caso recente di un assassino che poi va tranquillamente al bar con gli amici, come se non fosse successo niente».

Dunque, se non è un raptus omicida ma il culmine di un’escalation di odio, bisognerebbe imparare a riconoscere i segnali di questo risentimento che cresce?

«Certo, perché i segnali ci sono, anche se possono manifestarsi in tanti momenti della vita. Normalmente - e giustamente - nessuno si preoccupa di una litigata a casa, anche perché nella maggior parte dei casi l’episodio si chiude con la stessa rapidità con cui si è manifestato.

Ma bisogna chiedersi: è una litigata che capita una volta ogni tanto? È un episodio che si ripete? È uno scontro che sfocia in qualcosa di fisico? C’è un’escalation, nella misura in cui le manifestazioni di risentimento sono sempre più violente?

Queste domande bisogna farsele, perché succede di mandare al diavolo qualcuno, ma se è una volta ogni tanto ci può stare, se si passa a una volta alla settimana e poi a tre volte, e poi in queste tre volte magari comincia a volare uno schiaffo, è chiaro che ci si deve preoccupare. Non bisogna aspettare che succeda il peggio, né drammatizzare una sfuriata, ma essere attenti ai segnali».

Anche perché in questo modo si può prevenire il peggio...

«Sì, ma dobbiamo smettere di preoccuparci soltanto degli omicidi, che tutto sommato sono episodi rari. Semmai è delle violenze domestiche che dovremmo iniziare a interessarci e lavorare per prevenirli.

Perché intorno alla notizia di un episodio così straordinario per violenza, come quello di San Martino di Lupari, ce ne sono tante altre, tutti i giorni, che coinvolgono giovani, donne, anziani, e che sono piccole notizie di drammi che si consumano dentro casa».

E dei quali molto spesso neanche si parla perché sono drammi di cui non si sa niente. E allora da dove cominciamo a lavorare per fermare le escalation di cui parlava prima?

«Cominciamo dal linguaggio, lavoriamo per arginare le espressioni di odio. Se accettiamo che nella nostra società la violenza sia il linguaggio comune, allora ci mettiamo su una strada che conduce al punto in cui tutto è tollerato. E dove mettere limiti diventa molto più complicato».

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