La storia del doge della Mala del Brenta diventa un film per Netflix. «Spero di morire tranquillo»
Giampaolo Manca: «Come farò a spiegare a mio nipote quello che ho fatto? Sono stato un soldato del diavolo, ma pure il peggiore ha una fiammella dentro»
Silvia Bergamin
All’inferno e ritorno: le rapine, gli omicidi, il business della droga, e poi quasi 37 anni di galera, di cui dodici di isolamento in sei metri quadrati, la violenza dietro le sbarre, l’uscita, la redenzione, l’impegno per i bambini autistici, la produzione Netflix alle porte, la gioia di essere nonno e la paura: «Come potrò raccontare quello che ho fatto al mio nipotino quando sarà più grande?».
Giampaolo Manca, il “doge” della Mala del Brenta, ha ripercorso la sua esistenza estrema venerdì sera in municipio a Campo San Martino. Intervistato da Giorgio Stocco, incalzato dalle domande sia del sindaco Dario Luigi Tardivo che del vice ed ex primo cittadino Paolo Tonin, ha toccato i temi più vasti. Una biografia privata e una memoria collettiva.
Più di metà della sua vita senza vivere la libertà: «La funzione rieducativa della pena è una bella parola. Ma il carcere è un luogo dove vince il più forte. Per fortuna le telecamere si sono accese sulle violenze di Santa Maria Capua Vetere. Ma quelle violenze ci sono sempre state». Il gip parlò di «orribile mattanza» da parte delle forze dell’ordine. «A parte poche eccellenze, le carceri non funzionano: ogni giorno noi costiamo allo Stato 200 euro, ma quei soldi potrebbero essere spesi molto meglio. I direttori devono credere agli inserimenti, la pena non può diventare una vendetta. Nordio è stato un grande magistrato, mi ha messo in galera più volte, ora che è diventato ministro andrò a trovarlo a Roma». Non si nasconde: «Sono stato un delinquente vero, un soldato del diavolo. Ma anche il peggiore ha una fiammella dentro. Anche noi abbiamo bisogno di amore».
Cosa pensa di Felice Maniero? «Credo non abbia capito niente perché lui non sa cosa sia il carcere: ha deciso di scappare dalle sue responsabilità. Mi hanno chiesto: lo uccideresti? Che senso ha? Non riavrò mai 37 anni della mia vita».
In carcere è stato fondamentale il sostegno del volontariato: «Ho conosciuto sacerdoti e diaconi. Non mi importava nulla di Dio. Poi ho chiesto una grazia, l’ho ottenuta, ne ho chiesto un’altra, ed è arrivata. Ho trovato la fede. Ora le persone mi chiamano per ricevere conforto, sento malati oncologici che cercano coraggio».
Netflix porterà Manca in California per una produzione cinematografica partendo dal suo primo libro: «La sceneggiatura sarà sviluppata dagli stessi autori della serie di Wojtyla andata in onda su Mediaset. Andremo in California, poi giriamo qui. Il taglio non sarà quello di Gomorra. Voglio che si racconti la mia storia con tutte le sue complessità ma lanciando un messaggio educativo ai giovani». Nuovi progetti? «Sto scrivendo un libro con un carabiniere del Ros che ha arrestato Totò Riina: ci siamo trovati, eppure un tempo lui cercava di sparare a me e io a lui».
Il “doge” dorme due ore a notte per continuare a portare avanti i suoi progetti. La moglie Manuela lo ha atteso per quasi mezzo secolo. Ed ha spiegato anche venerdì sera le ragioni della sua resistenza: «Io sapevo che il suo era un animo buono. Alla fine posso dire di aver avuto ragione io». La genesi dell’attività di scrittore: la moglie non ne poteva più delle sue lettere dal carcere – erano missive da dieci pagine - e gli ha chiesto di scrivere libri «così mi lasci in pace».
Una volta uscito dalla galera una mamma di Padova - di nome Fabiana - lo ha chiamato per conoscerlo dopo aver letto un suo libro. Si sono incontrati in un supermercato di Marghera. Lui ha accarezzato il bambino che ha avuto una reazione: «Lei piace al mio bambino, è autistico», ha detto la donna, sorpresa. Con i libri ora Manca sostiene l’associazione Alphabeta, che ha sede a Piombino Dese, ed è impegnata sul fronte dei bambini con difficoltà di apprendimento: «Fare il bene è molto più faticoso rispetto a fare il male, ma ne ho bisogno. Lo Stato si deve vergognare, ci vogliono più risorse per il sociale a sostegno delle famiglie e delle cure di questi ragazzi».
Dolente, a tratti fatalista, Giampaolo Manca non vuole applausi: sente di dover espiare il conto con la sua coscienza. Il ricordo più bello della libertà? «Uscire e mangiare i croissant. Sentivo la luce, l’aria, fluttuavo. “Bravo Manca”, mi ha detto la guardia». Il malavitoso redento conosce sia Paolo Pattarello che Loris Trabujo: un mese fa nell’aula bunker di Mestre il primo ha aggredito il secondo ferendolo al volto e al corpo con un oggetto affilato, gridandogli «infame».
«Quello di Pattarello è il gesto di chi sa che finirà la vita in carcere. È gente marcia dentro». Uscire dal carcere libera dal rimorso? «La droga è il male estremo. I giovani morti di droga non mi lasciano dormire. Ognuno di noi guadagnava 700 milioni di lire al mese. Abbiamo rovinato tante famiglie». La felicità, oggi, è il nipotino di due anni: «Ma ho paura di quando sarà un po’ più grande: come faccio a spiegargli quello che ho fatto?». Ha una speranza? «Quella di morire tranquillo».
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