Morto in montagna, ecco chi era Stefano, con il sogno di diventare una guida. Lutto a Tombolo
Diplomato come perito meccanico al “Meucci”, per anni ha fatto il disegnatore. «Ha lasciato l’azienda per coronare la passione dell’arrampicata e farne un lavoro»
Silvia Bergamin
Energia pura, frenetica, impulsiva. Ma in montagna era disciplinato, metodico, preciso. Stefano Bazzacco amava le vette, arrampicare, andare oltre, sfidare. Aveva lasciato il lavoro di disegnatore meccanico perché in ufficio gli mancava l’aria. Lui voleva la vita, fino in fondo. Voleva la libertà. In un modo totale.
«Adesso l’hai fatta davvero grossa», si dicono gli amici, con strazio e disperazione. Stefano viveva in via Baracca a Onara di Tombolo. Lascia il papà Felice, che faceva il rappresentante della Lavazza e da poco è in pensione, la mamma Elisa e le sorelle Giulia, la maggiore, e Noemi, la minore. Da un anno si frequentava con Sofia Rossato, di Grantorto. Che conosceva il fuoco sacro del suo ragazzo, ne capiva la passione.
Giacomo Mazzonetto è l’amico del cuore, martedì ha sentito Stefano: «Stava andando in Friuli, c’è stato uno scambio di messaggi. Mi aveva scritto perché voleva portarci a casa il Montasio. Era così: uomo di festa, di compagnia, sempre disponibile».
Una bella compagnia, che va oltre i confini di Campo San Martino. «Io l’ho conosciuto facendo volontariato nell’operazione Mato Grosso. Anche se non siamo più impegnati siamo in stretto contatto. Dovevamo vederci domani per fare una serata insieme in un rifugio in montagna, ci eravamo programmati di arrivare ad Asiago. Era un’improvvisata, tra amici».
In Friuli Stefano è andato da solo: «Capitava quando non trovava nessuno con cui salire, era sempre in difficoltà a trovare compagni di avventure, ma capitava raramente che partisse in solitaria».
La febbre delle scalate: «A giugno aveva lasciato il lavoro, faceva il disegnatore tecnico in una ditta metalmeccanica, a Belvedere di Tezze sul Brenta, nel Vicentino». Una scelta drastica: «Voleva dedicarsi totalmente ad arrampicare. Il suo sogno era diventare guida alpina, mi diceva che doveva costruirsi una sorta di curriculum. Si stava allenando perché voleva che la sua passione diventasse il suo lavoro. Ci aveva coinvolto. Anch’io ho fatto un po’ di arrampicate».
Lui era un talento: «Era bravissimo. Quando giravi con lui ti dava sicurezza, controllava la tua più della sua attrezzatura, i nodi sulla corda, se facevi i passaggi giusti, aveva una predisposizione nell’insegnare. Era metodico, attento, scrupoloso».
Stefano, dopo le scuole a Tombolo, si era diplomato al “Meucci” di Cittadella, perito meccanico. «Martedì sera ho visto Sofia, è passata da me, era spensierata, aveva sentito Stefano». Imprevedibile: «Sabato scorso doveva esserci ad una festa, ma nel pomeriggio ci ha comunicato che non ce l’avrebbe fatta, rientrava alla domenica da un giro. E poi sarebbe ripartito. Era libero. Gli pesava tantissimo lavorare in ufficio, appena poteva usciva e andava in montagna. Le prime arrampicate le abbiamo fatte insieme in notturna, staccavamo dal lavoro e via».
E poi, aveva un cuore generoso: «Pronto a tutto. Tu lo chiamavi e lui arrivava. C’era sempre, ci teneva, era presente». La notizia della morte sconvolge: «Mi sono detto “cos’hai combinato adesso, l’hai fatta grossa”. Ma mi sbagliavo. Perché è vero: qui lui era foga, domanda di vita, urgenza, fretta, frenesia». Si mangiava la vita. «Era agitato, agiva d’istinto. Ma appena saliva in montagna, è strano: lui cambiava, lui sui monti trovava la sua disciplina».
Un uomo nel suo ambiente più naturale, più vero.
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