È passato un quarto di secolo da una scelta epocale: immaginare che i beni confiscati alle mafie potessero finire agli Enti pubblici ma anche al volontariato. Era il disegno di una metamorfosi sociale per quei patrimoni sporchi; la possibilità di redimerli. Da veleno a cura. Ville, garage, capannoni e negozi, auto fenomenali, ristoranti, impianti sportivi: con una “bacchetta magica morale” che piacerebbe a Harry Potter, diventano sedi culturali o di comunità, scuole, centri sanitari, o comunque alimentano l’economia buona e ardua dell’onestà. Che meraviglia.
Ma non dobbiamo stappare bottiglie con le bollicine. L’idea non sta funzionando, è una macchina che gira a marce basse. In Veneto sono stati assegnati solo 92 beni su 460 confiscati. Quattro su cinque non diventano una cosa bella. Nessuno li vuole perché metterli a posto costa troppo. Il nostro giornale ha esposto questo doloroso fermo immagine italiano, l’ennesima opportunità non colta. C’è un’agenzia nazionale, con uno di quei nomi che respingono la lettura: Anbsc. Questa agenzia è la fonte dei dati, che coprono l’intero periodo dagli anni Ottanta a oggi, da Paolo Rossi ai Maneskin, dai gettoni telefonici alle app e da Berlusconi... a Berlusconi, già.
Servono fondi per ristrutturare i beni, strumenti per valorizzarli e, naturalmente, burocrazie più agili. Il deputato veneziano Nicola Pellicani siede nella Commissione Antimafia; dice che esistono sindaci che neppure sanno di avere sul proprio territorio un bene confiscato. Lui pensa al Pnrr come soluzione. L’importante è studiare e decidere.
Perché altrimenti si fa largo una pessima sensazione. Abbiamo capito l’importanza di riprenderci le ricchezze accumulate dai banditi, che inserite nel minipimer del riciclaggio tornano in circolo, intossicando l’economia legale, estromettendo slealmente la gente perbene. Abbiamo capito, abbiamo legiferato. Ma non abbiamo fatto la differenza.
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