Terra di miseria, fatica e orgoglio: la lezione del Polesine, dal dramma alla rinascita, a settant’anni dall’alluvione

ROVIGO. Un’immagine: tre bare aperte, sistemate su un argine a Frassinelle, adagiate sulla paglia. La stessa paglia nasconde due corpi privi di vita, di cui si vedono appena le gambe e le scarpe. Sono passati diciotto giorni dalle prime rotte e ancora si trovano cadaveri. Un video: un filmato dell’istituto Luce, girato nei giorni del disastro, mostra i volti dei bambini del
Polesine rimasti orfani. Qualcuno sorride, qualcun altro è disorientato, altri ancora hanno impresso il terrore dei terribili momenti vissuti in quelle settimane. Una riproduzione: un plastico in cui è segnata la linea d’acqua che ha ridisegnato confini e storia del
Polesine il 14 novembre 1951. La vista è fortissima. Otto miliardi di metri cubi d’acqua, che in poco più di dieci giorni hanno invaso 100 mila ettari di territorio, due terzi del Polesine. Oltre cento morti (quelli ufficiali), 190 mila sfollati, ventimila aziende agricole distrutte, danni per 300 miliardi di lire.
Cosa accadde settant’anni fa: la video-ricostruzione
Polesine 1951, cosa accadde settant'anni fa in provincia di Rovigo: la videoscheda
Prospettiva inedita
Sono tre delle numerose testimonianze che da oggi al 30 gennaio racconteranno i 70 anni dalla grande alluvione del Polesine: ad ospitarle è Palazzo Roncale di Rovigo, teatro della mostra “70 anni dopo. La Grande Alluvione” curata da Francesco Jori e Sergio Campagnolo. Una mostra che, non tradisca la premessa, vuole ricordare ben oltre lo strazio di quei giorni. Racconta infatti – ed è questa la vera prospettiva inedita – la capacità di cambiamento che il Polesine ha intrapreso per affrancarsi dalle devastazioni dell’alluvione del 1951: sette decenni di paziente, tenace, laboriosa ricostruzione.
«Prima si era abituati a riparare e a ripartire sulla stessa strada» spiega il curatore Jori «mentre con la Grande Alluvione si sgancia il Polesine dalla totale vocazione agricola e lo si ricostruisce seguendo delle alternative, cultura e istruzione comprese». Già, perché è bene ricordare una cosa: quando il primo argine cede – sono le 20 del 14 novembre e in poche ore si susseguono tre devastanti rotte a Vallice di Paviole e poi a Bosco e Malcantone di Occhiobello – in Polesine sei persone su dieci lavorano nel settore primario. La provincia di Rovigo è la più povera realtà del Nord Italia. In dieci giorni due terzi delle terre, quasi unica fonte di sostentamento, sono sommerse dall’acqua e migliaia e migliaia di aziende agricole vengono spazzate via dall’acqua.
Ripartire e rinascere
L’allestimento di Rovigo, pur facendolo egregiamente con le straordinarie e toccanti immagini dell’epoca, vuole proprio andare oltre quel racconto: «Questa mostra intende soprattutto focalizzare come quella tragedia si ripercuota oggi nel tessuto fisico, sociale ed economico del Polesine» conferma Gilberto Muraro, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo che ha promosso l’evento «cercando di indagare “cosa”, oltre al ricordo, al dolore, alle tragedie personali e sociali, derivi oggi da quell’alluvione. Che certamente “bloccò” un territorio, il quale però orgogliosamente ebbe la forza di riprendersi, pur restando estraneo all’esplosione industriale che ha partire dagli anni Sessanta mutò il volto di altre province del Veneto».
Ferdinando Camon e la storia della ragazza sfollata mai più vista
Polesine 1951: Ferdinando Camon e la storia della ragazza sfollata mai più vista
Le immagini e i protagonisti
La lunga rincorsa di riscatto del Polesine, a Palazzo Roncale, parte appunto dalle immagini del novembre 1951 (quella del fotoreporter immerso nell’acqua, con un cineoperatore alle spalle, vale da sola la visita alla mostra), passa per le testimonianze di personaggi come Lina Merlin e Toni Cibotto (la senatrice e il giornalista che resero l’alluvione un problema nazionale, ma che furono prima di tutto volontari sul posto), tocca i fotogrammi della ricostruzione (tanti gli scatti d’epoca delle colonne di mezzi di soccorso) e arriva fino alle istantanee di Marco Beck Peccoz, che raccontano un Polesine romantico e vitale, che mira ad andare ben oltre lo stereotipo della zanzare e della nebbia. La stanza finale accoglie anche una coltura di insalata idroponica, capace di crescere senza terra e solo con l’apporto dell’acqua: è l’insalata di Lusia, orgoglio Igp del Polesine. Il messaggio è chiaro: l’acqua che oggi si vuole ricordare non è quella della distruzione, ma che quella capace di fare crescere.
(NIcola Cesaro)
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LA LEZIONE DEL POLESINE
Polesine 1951-2021, Ferdinando Camon: "Delta del Po enigmatico e pericoloso"
Ferdinando Camon: "Delta del Po enigmatico e pericoloso"
Lo scrittore padovano Ferdinando Camon era un adolescente nel 1951, ecco il suo ricordo ma soprattutto il suo bilancio su quel drammatico avvenimento di settant'anni fa: "Fummo colti tutti di sorpresa, non abbiamo previsto nulla. Ma soprattutto serve più attenzione verso la natura e specialmente il Delta del Po, zona enigmatica e pericolosa". Testimonianza raccolta da Paolo Cagnan.
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LA CRONOLOGIA
- 14 novembre, intorno alle 20: tre rotte lungo il corso del Po, una a Canaro e due a Occhiobello. Inizia un calvario di undici giorni in cui si riversano nel territorio 8 miliardi di metri cubi d’acqua, allagando 100mila ettari di terreno, due terzi dell’intera provincia
- Notte tra il 14 e il 15: un camion che trasporta una novantina di profughi viene travolto dall’acqua a Frassinelle; 84 persone perdono la vita, tra cui molte donne e bambini
- 16 novembre: arriva a Rovigo il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, che presiede una riunione per organizzare i soccorsi
- 17 novembre: il centro di Adria viene sommerso dalle acque, sfiorando il metro e mezzo di altezza; mancano acqua, luce e gas, la città viene in larga parte evacuata; a Roma il governo nomina Giuseppe Brusasca commissario alla ricostruzione
- 18 novembre: arriva a Rovigo il capo dello Stato Luigi Einaudi con la moglie, e si reca in visita ai profughi ricoverati in ospedale e ai centri di prima assistenza nella Bassa padovana
- 26 novembre: vengono fatti saltare con una settantina di quintali di tritolo pezzi di argine della Fossa Polesella, consentendo il deflusso a mare delle acque del Po
- 6 dicembre: viene emesso il decreto che autorizza il rientro degli sfollati nelle loro abitazioni
- 27 dicembre: vengono aggiudicati i lavori per la riparazione degli argini e la chiusura delle brecce per un costo di 2 miliardi di lire
- 31 dicembre: nel Duomo di Adria il vescovo Guido Maria Mazzocco celebra la messa solenne di inizio anno
- 1 gennaio 1952: primo conteggio dei profughi: in 189mila hanno lasciato le loro case; 80mila di questi non faranno più ritorno
- 25 maggio: completamento dell’opera di prosciugamento delle acque, le campane delle chiese polesane suonano a festa
i LUOGHI
Rovigo: mostra alluvione a palazzo Roncale
Adria: Duomo e zona stazione, dove durante l’alluvione l’acqua raggiunse il metro e mezzo di altezza
Frassinelle: cimitero dove sono sepolte le 84 vittime del camion di profughi travolto dall’acqua
Occhiobello: parco della ricostruzione, con cippo commemorativo nel punto in cui avvenne la rotta del Po (la prima, 14 novembre)
Porto Tolle: Isola della Donzella, finita allagata
Rosolina: villaggio Norge Polesine, realizzato per i profughi grazie alla solidarietà del governo norvegese
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Francesco Jori racconta la grande alluvione di settant’anni fa e il lungo cammino per il riscatto di un intero territori
Di solito le tragedie si misurano in morti, questa invece bisogna misurarla in vivi, i sopravvissuti che hanno abbandonato per sempre la loro terra, la loro vita, la loro cultura. Nel novembre del 1951 nel Polesine è cambiato tutto, nel male ma anche nel bene come ricorda Francesco Jori (con l’aiuto di Sergio Frigo) in “I giorni del diluvio” (Biblioteca dell’immagine, pp 263, 14 euro). Tutto è successo settant’anni fa, in questi giorni, tra il 12 novembre e la fine del mese, anche se poi è il 14 novembre il grande giorno, quello in cui il Po rompe gli argini e allaga una immensa distesa di territorio.
I morti sono 101, non pochi, ma neppure troppi se si pensa che 89 di questi sono morti in un unico tragico episodio, un camion dei soccorsi travolto dalla piena per aver sbagliato strada. Ma i danni, quelli furono enormi, verrebbe da dire incalcolabili, anche se in realtà – come racconta Jori – un calcolo lo si può fare: un terzo dei polesani negli anni immediatamente successivi abbandonò la sua terra, convinta che avessero vinto le acque. Poi certo si possono fare molti altri numeri, e il libro li fa puntualmente, ma quello degli abitanti sconfitti è il numero più doloroso.
La copertina del libro
E tuttavia “I giorni del diluvio” non è un libro in negativo: racconta anche la grande energia che scaturì da quella alluvione. Perché chi rimase cambiò, perché per la prima volta, anche grazie ai cinegiornali, il Polesine divenne un racconto condiviso dagli italiani, la terra dimenticata e avvolta nella nebbia (anche quella mediatica) fu messa al centro della scena e nulla fu mai più come prima. Anche qui i numeri aiutano: il Polesine degli anni Cinquanta – racconta Jori – era l’area più povera di un’area, il Veneto, che stava a sua volta appena cominciando a rialzare la testa. Oggi, settant’anni dopo, il Polesine è un’area sostanzialmente omogenea rispetto a una regione che, nonostante le crisi di questi anni, produce ricchezza.
“I giorni del diluvio” allora è il racconto di un disastro cui la popolazione ha saputo reagire, sfruttando ciò che in quei giorni, e in quelli successivi, ha ricevuto dal resto del Paese. Come prima tragedia mediatica, la grande alluvione del 1951 è anche la prima tragedia che vede espandersi la solidarietà, la voglia di aiutare chi ha perso tutto: case, terreni, animali. Sott’acqua finiscono centinaia di trattori, migliaia di aratri, un’intera economia – dice Francesco Jori. Un’economia, questo va detto, che era ancora latifondista, in cui la figura del bracciante a giornata che vive alle soglie della sussistenza in casoni col tetto di paglia dove la cucina è anche l’alloggiamento delle bestie non era folklore.
La cronaca dell’acqua che si alza in quei giorni è quindi ancora più drammatica, perché coinvolge un territorio che è rimasto ai margini. I polesani sono abituati a combattere con l’acqua, con la pioggia, con i cieli plumbei, con l’estrema povertà, ma l’alluvione del 1951 è un’altra cosa. Il sentimento che vibra nelle pagine di Jori, nel suo racconto di quei giorni, è un misto di dolore e orgoglio, perché questo è il sentimento che le testimonianze orali o scritte (il libro è dedicato non a caso a Gian Antonio Cibotto) raccontano di quei giorni. E da cronista che si fa storico, Jori lo ricostruisce con la sua scrittura tesa, incalzante, lasciando poi a Sergio Frigo, in un ultimo capitolo, il racconto di come tutto questo è stato tradotto dalla letteratura, dal cinema, dalla canzone.
(Nicolò Menniti-Ippolito)
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Fioravante Bucco: “Polesine 1951” Riemergono in mostra le foto dall’album di famiglia
La mostra sui 70 anni dalla Grande Alluvione, visitabile al Roncale sino al 30 gennaio, è servita anche per far emergere documenti sino ad oggi ignoti su quel tragico evento e sulle giornate ad esso immediatamente successive.
È il caso di un album di famiglia conservato a Forni di Sopra, in Carnia, e rimasto sinora tra le memorie di casa.
La sua riscoperta la si deve a Gabriella Bucco, giornalista friulana, figlia dell’autore di quella serie di immagini. Saputo della mostra, è stata lei a mettersi in contatto con gli organizzatori per mettere a disposizione le immagini.
L’autore di quelle foto è suo padre, Fioravante Bucco, che nel 1951 era in servizio al Ministero Agricoltura e Foreste, presso l’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura di Udine, negli uffici distaccati di Tolmezzo.
“Dopo la disastrosa alluvione, alcuni impiegati, credo tre, dell’Ispettorato erano stati inviati in Polesine per le verifiche dei danni”, ricorda la dottoressa Bucco.
“Ho trovato le fotografie d’epoca nell’album di famiglia conservato a Forni di Sopra: sono 44 scatti amatoriali di piccolo formato (6x9 cm) stampate dallo studio fotografico Stoppa di Rovigo, come si evince dal retro, dove compare la scritta “Polesine 1951” senza altra indicazione. Le fotografie in bianco e nero furono scattate con una macchina compatta Leica IIIC mm 35 del 1946”.
È verosimile che i tre ispettori abbiano documentato ampiamente lo stato del Polesine agricolo all’indomani dell’Alluvione, ma quella documentazione, nel passaggio di competenze dallo Stato alla Regione, non venne salvata e finì probabilmente al macero. Fortunatamente a documentare quell’intervento in terra polesana sono rimaste le immagini private dell’Ispettore, quelle che, grazie alla disponibilità della figlia, sono adesso svelate in una piccola sezione dedicata nel percorso della mostra al Roncale.
70 ANNI DOPO
La Grande Alluvione
Rovigo, Palazzo Roncale
23 ottobre 2021 – 30 gennaio 2022
Mostra a cura di Francesco Jori, con la collaborazione di Sergio Campagnolo. Promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo.
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Dall’onda di fango nacque uno scrittore:in libreria le “Cronache” di Cibotto
Ci sono libri che rivelano lo scrittore. Non a caso allora “La nave di Teseo” inizia a pubblicare l’opera omnia di Gian Antonio Cibotto con “Cronache dell’alluvione. Polesine 1951” (pp 144, 16 euro) che sarà in libreria dall’11 novembre, a settanta anni esatti dai fatti che racconta.
Nel 1951 Cibotto aveva 26 anni, non era ancora il critico teatrale, lo scrittore, il giornalista, il consulente editoriale che poi è stato. Aveva una laurea in legge, amava la letteratura, non si decideva ad abbandonare la sua Rovigo per la avventura romanza che pure lo attraeva moltissimo. Ma quando le acque del Po, il 12 novembre, cominciarono a salire, un po’ per curiosità, un po’ per apprensione, con qualche amico prese la macchina e raggiunse gli argini minacciati. Vide in tempo reale la lotta contro l’acqua e tornò nei giorni successivi, perché era meglio vedere di persona, piuttosto che stare solo ad aspettare il peggio.
“Cronache di un alluvione” non è allora un reportage giornalistico, è il racconto in prima persona, reso con l’immediatezza di chi c’era, di un’avventura personale che diventa presto collettiva. Perché il ragazzo che viene da Rovigo a un certo punto non può stare solo a guardare, comincia a far parte di una comunità che cerca di salvare il salvabile, di spezzare con la propria ostinazione l’onda avanzante del fiume. Nelle settimane successive i “carnet dell’alluvione” di Cibotto furono pubblicati sulla Fiera letteraria. Piacquero a Neri Pozza che decise di pubblicarli in un volume che fu presto amato da molti, a cominciare da Montale. Era nato uno scrittore: “La coda del parroco”, “Scano boa”, “Stramalora” verranno dopo.
E a ripercorrerle, queste pagine di straordinaria modernità stilistica raccontano meglio di tutte le altre la vocazione di Cibotto: il suo amore per una terra da cui ha sempre voluto fuggire, ma a cui è sempre tornato. Questa terra minacciata, questi uomini in lotta e sconfitti Cibotto li racconta senza nessuna retorica, senza nessuna enfasi. E se si mette dentro il libro non lo fa per narcisismo ma per restituire al lettore lo sguardo dall’interno della tragedia, perché nessuna osservazione esterna saprebbe realmente restituire quel che sta succedendo. Con Cibotto si prova la sensazione di essere in mezzo al fiume, di essere sull’argine, si prova “l’impotenza della parola” di fronte alla disperazione come dice Cesare De Michelis nella nota che (assieme a brevi scritti di Gian Antonio Stella, Elisabetta Sgarbi e Vittorio Sgarbi) accompagna il libro edito da Nave di Teseo.
(Niccolò Mennitti Ippolito)
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