Fiammetta Borsellino e la condivisione del dolore
L'intervento al convegno in carcere a Padova: guardare in faccia il male, sorbirsi l'artiglieria della menzogna. Frugare sotto il tritolo per cercare la verità. Una lezione
don Marco PozzaPADOVA. Ha preso la parola sapendo d'avere dinnanzi una platea di uomini-difficili, storie i cui protagonisti sono apparentemente uomini senza speranza. Tutt'al più uomini che hanno complicato tremendamente la speranza, singola e collettiva.
Fiammetta Borsellino – ospite di un convegno svoltosi nel carcere “Due Palazzi” di Padova - è la figlia di Paolo Borsellino, la cui vita è stata frantumata in quella famigerata via D'Amelio il 19 luglio 1992, quarantasette giorni dopo la mattanza che disintegrò l'amico Giovanni Falcone.
«Mio padre sentiva forte un'urgenza: comprendere l'uomo prima di tutto – racconta – Per questo amava fra i processi in lingua siciliana: per scavare negli accenti, negli sguardi, per indagare dentro le storture che mortificano la città».
Il male è emergenza, il bene è prevenzione, del male prima di tutto. Prevenire è generare educazione civica di prevenzione : fare dell'emergenza la misura di ogni scelta è generare incultura, ostinarsi di stare dalla parte di chi dice “Noi non siamo come loro”. Quando, invece, l'uomo è uguale dappertutto: un perpetuo miscuglio di angelo e bestia, di bene e male.
Prevenire è scegliere da quale prospettiva affrontare la vita: «A mio padre importava dire da che parte stare per tentare la liberazione di una terra». Dalla parte dell'amore, preludio di sofferenza, condizione unica per la trasformazione: «Ricordo le sue parole: “Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perchè il vero amore consiste nell'amare ciò che non ci piace, per poterlo trasformare”».
A nessuno piace morire. Qualcuno, però, è così ricolmo di vita da accettare di correre il rischio della morte per vivere appieno. Così gravido di vita da produrre una trasfusione-di-vita in coloro che gli stanno vicini, da renderli poi protagonisti di una sfida diretta contro il male, pur di non sapere invana quella morte: «Dopo la morte di mio padre, la nostra è stata un'urgenza emotiva – continua -: condividere il dolore con coloro che lo hanno provocato».
Guardare in faccia il male, sfidare i suoi rigurgiti cafoni, sorbirsi l'artiglieria della menzogna. Frugare sotto il tritolo per cercare la verità, perlustrando i bassifondi degli inferi: «Non c'è strada verso la giustizia che non passi attraverso la verità». Verità nascosta, depistata, ingannata: verità che resta l'unica forma di liberazione per la vittima, il carnefice. Ragionamenti lucidi, non solo emozione.
Parole taglienti e decise, su sguardi aguzzi e altrettanto decisi: insistere su ciò che arreca paura è il grande inganno del male. Far leva sulla leggerezza del bene è la grande promessa della salvezza: «Ciò che mi rattrista – conclude – è vedere qualcuno che non riesce a compiere quel passo in più che libererebbe anche chi ha ucciso, liberando la parte migliore di sè».
Parole intonate tra il ferro-cemento di una patria galera. Che paiono stonate in mezzo alle strade di una nazione che sceglie l'emergenza come carta nautica di navigazione. Così distratta da invocare a squarciagola l'ergastolo preventivo, scordandosi che la vera sconfitta del male è anticiparlo, rendendolo impotente alla sua nascita.
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