Discarica di Pfas, ora c’è la prova
Arpav conferma: perfluoroalchilici fuorilegge nei rifiuti interrati sull’argine esterno a Miteni
di Filippo Tosatto
PADOVA. Era un indizio, è diventato una prova.
[[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) La pattumiera interrata che sporca di Pfas il Veneto]]
I cumuli di residui chimici e metallici sepolti nell’argine adiacente allo stabilimento Miteni contengono sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) e benzotrifluoriche (Btf) in concentrazioni largamente superiori ai limiti di legge. La conferma decisiva arriva dall’Arpav che ha analizzato le molecole dei campioni prelevati nel terrapieno giungendo ad esiti identici a quelli evidenziati dagli esami di laboratorio eseguiti autonomamente dall’azienda di Trissino il cui sito industriale sorge sopra la falda di ricarica più ampia del Veneto.
La circostanza è cruciale: per la prima volta dopo un anno e mezzo di ricerche (scandite da polemiche, denunce e parole in libertà) l’agenzia regionale di protezione ambientale individua e certifica un agente contaminante delle acque a fronte di una superficie inquinata che si estende lungo 150 kmq - dall’Ovest vicentino alla Bassa padovana fino ai lembi del Veronese - minacciando la salute di oltre 120 mila persone, ora destinatarie di uno screening sanitario di massa che non trova precedenti nella storia del Paese.
Attenzione. Il venefico capitolo Pfas è lungi dall’essere concluso: parafrasando l’aforisma di Churchill, i materiali tossici emersi dagli scavi sull’argine del torrente Poscola non segnano l’inizio della fine ma piuttosto la fine dell’inizio. Perché il sospetto (meglio, la pista) coltivato dai segugi dell’Arpav è che le decine di sacchi di plastica bianca zeppi di scarti industriali non rappresentino un caso isolato e circoscritto ma la spia di altri stock di rifiuti chimici sepolti magari a breve distanza, sotto l’ala esterna dello stabilimento rivolta verso il piccolo corso d’acqua e la collina. A supportare l’ipotesi è anzitutto una coincidenza temporale: l’attuale versante arginale non corrisponde all’originale che fu ridotto e “avvicinato” di qualche metro al torrente per consentire l’ampliamento degli impianti. Correva il 1976, la datazione è certa grazie al rinvenimento dell’autorizzazione rilasciata dal Magistrato alle Acque, e il polo di Trissino si chiamava Rimar, società di ricerche e produzione fondata da Giannino Marzotto. In seguito, lo stabilimento avrebbe conosciuto vari passaggi di mano: prima la joint venture tra Mitsubishi ed Eni, poi l’azionariato esclusivo del colosso giapponese, infine - a partire dal 2009 - l’avvento dei tedeschi-lussemburghesi di International Chemical Investitors Group che hanno designato al vertice dell’azienda l’attuale amministratore delegato, Antonio Nardone, cireneo - suo malgrado - di una catena di illegalità e verità occultate che perdura da una quarantina d’anni con gli effetti dirompenti divenuti cronaca quotidiana. Ancora: ad accentuare l’ipotesi della “pattumiera diffusa” concorrono due fattori assodati. Le modalità di interramento dei fatidici sacchi - «Sopra le 400 tonnellate di materiali che abbiamo scavato erano state posate le tubature di raffreddamento, quasi un coperchio... », testimonia il chimico Davide Drusian, responsabile sicurezza di Miteni e autore della scoperta - e l’assenza di tracce inquinanti dal sito dello stabilimento, i cui viali e piazzali sono stati perforati da decine di carotaggi e solcati da una trincea lunga una quarantina di metri, senza esito alcuno.
È un filone, quello dell’accertamento della paternità degli illeciti e delle omissioni, decisivo non soltanto sul piano penale e civile - obiettivo principale dell’inchiesta condotta dalla Procura di Vicenza - ma anche ai fini di un’efficace opera di bonifica ambientale che, pur procedendo già da un anno attraverso filtraggi, richiede una delimitazione certa dei focolai di contaminazione pena l’insuccesso sul nascere del piano concordato tra Regione, Agenzia ambientale e Istituto superiore di sanità. Né la letteratura scientifica internazionale è d’aiuto: gli unici precedenti registrati, nello stato americano dell’Ohio e in una regione della Svezia, impallidiscono a fronte dell’ampiezza della contaminazione idrica in Veneto. Un triste primato globale, già.
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