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Miteni: abbiamo scoperto la probabile fonte dei Pfas

L’ad Nardone: «Sacchi di rifiuti industriali sepolti all’esterno dello stabilimento negli anni ’70. Era l’epoca Marzotto ma sosterremo noi le spese della bonifica»

di Filippo Tosatto
2 minuti di lettura
TRISSINO. «Sì, scavando nell’argine del torrente Poscola, in un terreno esterno all’impianto Miteni, i nostri tecnici hanno rinvenuto una vasca contentente sacchi di rifiuti industriali mescolati a calce, sepolti probabilmente negli anni Settanta quando Rimar, la società Ricerche Marzotto, realizzò l’attuale arginatura. Attendiamo l’esito definitivo delle analisi sui campioni prelevati ma abbiamo il fondato sospetto che sia questa la fonte inquinante che ha riversato i Pfas nelle acque mentre i la trincea e i carotaggi eseguiti nel sito aziendale non hanno evidenziato alcuna traccia dei solventi al benzene ipotizzati dai carabinieri del Noe su base documentale». Parole di Antonio Nardone, l’amministratore delegato della società di Trissino indagata per la contaminazione idrica di una vasta superficie che dall’Ovest vicentino spazia alla Bassa padovana e lambisce il Veronese.

Da più parti Miteni è additata come l’agente responsabile del maggior inquinamento ambientale registrato nel Veneto in tempi recenti. Lei, dottor Nardone, respinge l’accusa e sottolinea come siano numerose le imprese della zona che utilizzano le sostanze di sintesi perfluoroalchiliche. Ma quali elementi concreti supportano la vostra presunta estraneità?

«Io sono arrivato a Trissino all’inizio del 2016 e tre mesi dopo è esploso il caso Pfas. Da allora, abbiamo adempiuto scrupolosamente a tutte le prescrizioni formulate da Arpav, autorità sanitarie, enti locali, magistratura. Il sito del nostro stabilimento sembra un campo di battaglia: oltre alla settantina di carotaggi già eseguiti (e altre centinaia seguiranno) abbiamo scavato un solco lungo quaranta metri per stringere al massimo la maglia dei controlli. Ebbene, dal nostro sottosuolo non è emerso nulla mentre le tracce della contaminazione, le concentrazioni molecolari sospette, conducono all’esterno, sull’argine appunto, e richiamano tempi lontani rispetto all’assetto attuale».

Il punto critico riguarda l’inquinamento delle falde che ha imposto un piano straordinario di messa in sicurezza degli acquedotti accompagnato da monitoraggio sanitario e screening di una popolazione stimata in 120 mila persone, fino alla plasmaferesi, al “lavaggio del sangue” avviato in questi giorni negli ospedali di Padova e Vicenza. Anche nell’ottica di una responsabilità a ritroso, la legge sugli ecoreati vi impone di sostenere le ingenti spese di salvaguardia e bonifica.

«Non ci sottrarremo agli oneri di bonifica, abbiamo già investito 15 milioni e il nostro piano industriale prevede ulteriori risorse umane e materiali in tale direzione. Ci accolleremo le spese necessarie ma le soluzioni possibili, dalla rimozione al contenimento, sono svariate e il punto di partenza è l’individuazione certa di un’area circoscritta contaminante. Finalmente, dopo tante voci incontrollate e allarmiste, siamo sulla buona strada. Noi continueremo a sforacchiare i terreni finché l’Arpav non riterrà sufficienti i test. Non abbiamo nulla da nascondere anzi abbiamo l’esigenza vitale che la verità venga a galla».

A fine mese, dopo il decreto regionale che ha recepito una sentenza del Tribunale superiore delle Acque, Arpav renderà noti i registri di tutte le imprese che utilizzano, a vario titolo, i Pfas. Vi attendere sorprese?

«Senz’altro sì, perché finora la normativa escludeva dal monitoraggio l’impiego di Pfas in percentuale inferiore all’1% o il ricorso ai suoi composti, vanificando di fatto ogni controllo preventivo».

Che intende dire?

«Miteni non produce più da anni Pfos e Pfoa ma queste sostanze vengono tuttora usate da oltre duecento industrie del settore conciario e manifatturiero presenti in zona che li acquistano sul mercato estero, imprese che sono allacciate agli stessi scarichi consortili a cui è allacciato il nostro stabilimento».

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