Padova, il “dottor 118” va in pensione: «Una vita tra le emergenze, ora la famiglia»
Il direttore del Suem Andrea Spagna lascia dopo quasi 40 anni di servizio: «Ma resto a disposizione». E guardando al passato: «In questo mestiere si impara a governare i sentimenti, ma guai a non nutrire emozioni»
«Sono un medico. E non si smette mai di essere medici». Nelle parole di Andrea Spagna c’è tutta l’ineluttabilità di un’esistenza che a partire dal 1° giugno, – dopo quasi 40 anni – smette di essere incardinata in ritmi e ruoli, ma non di seguire la sua vocazione. Ed è con queste semplici frasi – quasi lapalissiane – che risponde a chi, incontrandolo tra i corridoi di quella che è stata la sua seconda casa per tanti anni, gli chiede cosa farà adesso.

Il direttore del Suem 118 Andrea Spagna, in pensione dal 1° giugno
Ora che sta chiudendo per l’ultima volta dietro di sé la porta della Centrale Operativa del Suem dell’Azienda Ospedale Università, almeno come direttore. Lui che c’era quando questo servizio è nato, nel 1996, al Sant’Antonio. Lui che ha lavorato sodo per farlo crescere e ora, come ogni “genitore” degno di questo nome, è pronto a lasciarlo andare. Per dedicarsi alla sua famiglia – una moglie, due figli e quattro nipoti – che per tanti anni ha rispettato quel lavoro impregnato di passione.
È tempo per un ultimo giro insieme nella rinnovata Centrale, quindi: nella nuova sala riunioni che qualche mese fa ha preso il posto – dell’obsoleto – cuore della struttura. Sul mega schermo scorre un filmato che ripercorre per foto, emozioni ed esperienze, tutta la vita vissuta negli ultimi 27 anni.

La nuova Centrale Operativa del Suem 118 di Padova
«In queste ore provo un misto di emozioni» conferma guardando scorrere le immagini, apparentemente impassibile «provo il dispiacere per la fine di un percorso importante e ricco di soddisfazioni, ma ho anche la serenità di chi sa di aver dato tanto durante la sua carriera. E ora comincio ad assaporare quello che di diverso potrebbe succedere d’ora in poi».
Eccola la prima foto di gruppo, datata appunto 1996, quando i servizi di soccorso assomigliavano vagamente alla macchina di Ghostbusters; quindi i protagonisti al lavoro tra interventi – anche con l’elicottero fin su a recuperare feriti tra le alture, con Spagna che si cala con il verricello – e corsi nelle scuole a insegnare il primo soccorso. Ma non mancano foto “gioiose”, con i sorrisi di chi ama il proprio lavoro.
Poi tra le foto ecco la città farsi improvvisamente spettrale, con le strade appannaggio delle ambulanze cacciatrici di Covid, gli operatori «vestiti da Minion sudati nella loro armatura», fino al ritorno alla normalità, celebrata a marzo con l’inaugurazione della nuova Centrale Operativa: «Forse il momento più bello della mia carriera» ammette Spagna «l’abbiamo aspettata tanto, ma ora ci permette di lavorare meglio, sia dal punto di vista del comfort che della tecnologia».
Sull’altro versante, a pesare di più nell’anima «l’incidente all’autobus dell’Associazione nazionale carabinieri, in cui ci furono cinque morti e 18 feriti, forse uno dei momenti più tristi. Fu un evento impegnativo non solo dal punto di vista dei soccorsi: ha lasciato il segno» aggiunge con una compostezza figlia di anni di allenamento al controllo «in questo mestiere si impara a governare i sentimenti, non a non provarli, anzi, guai a non nutrire emozioni».
In mezzo mille aneddoti «certo c’è stata anche qualche discussione nella distribuzione dei pazienti»; «i neogenitori che sono venuti a trovarci con il figlioletto che avevamo fatto nascere a domicilio» o ancora gli anziani con il loro dialetto non sempre comprensibile e le strane richieste al momento dell’arrivo dei soccorsi: «Che dice, devo portare il portafogli, c’è da pagare?» ricorda con tenerezza.

Il dg dell'Azienda Ospedale Università di Padova e il primario Andrea Spagna
Ed ecco che dopo tanti anni in un lavoro in cui il vertice è prima linea e risponde al telefono anche in piena notte, Spagna ha detto basta. Anche se sarebbe potuto restare un po’ di più visto che i direttori possono chiedere di lavorare fino a 70 anni: «Quello dell’emergenza urgenza è un lavoro impegnativo, che ti tiene collegato 365 giorni l’anno» spiega «e io avevo semplicemente voglia di un po’ di tranquillità, di non avere più una vita controllata dall’agenda. È venuto il momento che sia io a scrivermela, anche se in famiglia sono già tutti presi dall’idea di organizzarmi le giornate. Ora è tempo di dedicarsi ad altro, a una famiglia che in questi anni è stata tanto sacrificata e ai nipoti, che crescono così velocemente e poi ti “scappano”. Mi troverete a passeggio per le piazze».
Il legame con la professione non per questo si spezzerà: «In realtà devo ancora svuotare gli armadi» si schermisce dietro a un sorriso che è arma contro quell’emozione così a lungo tenuta a bada «ho detto al dg che sono a disposizione per dare una mano fino a che ce ne sarà bisogno. Dopodiché certo non ozierò, ma metterò volentieri a disposizione la mia esperienza dove sarà ritenuta utile. Di sicuro non andrò a fare il medico in una cooperativa» dice ricordando la sua specializzazione in anestesia. Tra le medaglie che porta con sé c’è la consapevolezza di aver trattato sempre le persone con rispetto: «Ho cercato di tirare fuori il meglio da ognuno, ben sapendo che non tutti sono in grado di dare lo stesso apporto, ma rendendo tutti parte della squadra. Perché questo è quello che siamo, in centrale e sulla strada. Quello che desidererei restasse come mia eredità è proprio questo: un gruppo coeso, che è fondamentale per lavorare bene».
A mezzogiorno un brindisi, veloce, intimo, con la seconda famiglia: «Questa è stata per anni una casa. Le persone che ho incontrato, con cui ho lavorato anche all’esterno, non potranno non mancarmi». In corridoio è tutto uno sbracciarsi di saluti, un arrivederci quantomai definitivo. «Non mi sarei mai aspettato tutto questo affetto, mi ha stupito» ammette. Quindi chiede: «Non è che staremo esagerando?». E riecco quella risata che gioca a ingannare l’emozione.
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