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La crisi dei bar a Padova: lo scorso anno in 122 hanno chiuso

La denuncia dell’Appe: sono aumentati i costi e la pandemia ha lasciato uno strascico di debiti. Serve l’aiuto delle amministrazioni

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«In soli 4 anni abbiamo perso più di 300 attività, vale a dire il 6% del totale, ma l’aspetto più drammatico è che le chiusure riguardano quasi esclusivamente il settore dei bar: meno 122 nel solo anno 2022». E’ il il vicepresidente dell’Appe Padova Matteo Toniolo a lanciare l’allarme sulla crisi dei bar. Un settore colpito in modo particolare, molto più degli altri locali, come ristoranti e club. Un settore che dovrà necessariamente “cambiare pelle” e che necessita di sostegno da parte delle amministrazioni locali. I dati emergono dall’analisi svolta dall’Associazione Provinciale Pubblici Esercizi su dati Infocamere, e relativa alle attività di pubblico esercizio, con particolare riferimento ai bar giornalieri
(quelli che aprono al mattino presto e chiudono entro le ore 22). I numeri, riferiti all’anno 2022, vedono a livello provinciale 4.861 attività iscritte al Registro delle Imprese nel settore Ateco “56 – Servizi di ristorazione” (che comprende ristoranti, bar e catering), contro le 5.008 imprese dell’anno precedente e le 5.166 (massimo storico) registrate nel 2018.

I motivi della crisi. Indebitamenti contratti durante il periodo Covid, costi aumentati in modo spropositato, consumi in calo e impossibilità di aumentare in modo adeguato i listini: sono gli elementi che, secondo l’Associazione degli esercenti, hanno portato tante attività di bar ad abbassare definitivamente le serrande. «Il turn-over – sottolinea il vicepresidente – nel settore dei pubblici esercizi è sempre stato particolarmente elevato, ma adesso stiamo registrando picchi preoccupanti: secondo gli ultimi dati in nostro possesso, più della metà dei locali chiude entro i primi cinque anni di vita». Eppure, secondo l’Associazione che a Padova e provincia è quella più rappresentativa del settore turistico, i bar sono un vero e proprio “patrimonio” da salvaguardare. «Sono imprese – conferma Toniolo – che presidiano il territorio, anche nei giorni e orari in cui le altre attività sono chiuse, sono anche un punto di ospitalità per cittadini e turisti, svolgono un servizio di ristoro e accoglienza e, non ultimo, di sicurezza».

Presidi di socialità. Ma è su un altro aspetto che l’Appe pone l’accento: l’esigenza di socialità, in una società dove gli
individui sono sempre più “s-connessi a distanza”. «L’evoluzione dei social – sottolinea il Vice Presidente – ha portato con sé la trasformazione dell’uomo da “animale sociale” a individuo singolo: pensiamo a quante monoporzioni vengono vendute al supermercato e poi consumate tristemente sulla scrivania dell’ufficio o seduti su una panchina. Stiamo realmente perdendo il carattere sociale e socievole che ha caratterizzato il fascinoso e acclamato “Italian way of life”, per andare a finire nell’isolazionismo di stampo anglosassone». Ecco che, dunque, i bar diventano anche presidio di socialità, di conversazione e confronto. «Pensiamo – conferma Toniolo – a quante amicizie, quanti affari e quanti scambi di idee sono nati e maturati al tavolo di un bar, a partire dai “caffè” del settecento, fino ai giorni nostri: ecco, se dovessi dare una definizione di bar, direi che è un “social network reale”, con tutti i vantaggi del caso, come ad esempio poter condividere emozioni e racconti in compagnia».

Perchè non si va più al bar. Molti clienti stanno orientando i propri consumi verso altre formule, come il “vending” (le classiche macchinette da caffè presenti ormai in tutti gli uffici) o l’acquisto di prodotti preconfezionati al supermercato, creando così difficoltà al settore dei pranzi veloci, delle colazioni e degli aperitivi. «Siamo sicuri – sottolinea il viice presidente Appe – che la qualità del prodotto erogato dai distributori automatici sia equivalente a quella garantita da un barista professionista, con materie prime di qualità? Per non parlare – prosegue – di tutto il tema della sostenibilità ambientale: pensiamo a un tramezzino preso al bar, che al massimo ha un tovagliolo di carta, con uno acquistato al supermercato, lavorato e prodotto a livello industriale, magari giorni prima, e venduto utilizzando involucri di plastica, borse e sacchetti vari».

L’aiuto dei Comuni. Tutti motivi, secondo l’Appe, che dovrebbero spingere le amministrazioni centrali e locali a tutelare e salvaguardare queste imprese. «Aiutare un bar – conferma Toniolo – vuol dire salvare posti di lavoro, ma anche garantire decoro urbano, sicurezza del territorio, accoglienza ai cittadini. Pensiamo – conclude – a come sarebbero le nostre città senza locali: buie, abbandonate al degrado e alla sporcizia e facile preda di malintenzionati vari».

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