Padova, nel 2030 mancheranno 146 mila lavoratori. Colpa di calo demografico e crisi di competenze
Veneto Lavoro: produzione a rischio in provincia per carenza di giovani. Sempre più urgente una gestione efficace dei flussi migratori. Il sindacato: formazione e incentivi
Elvira Scigliano
Nel 2030 mancheranno all’appello oltre 400 mila lavoratori della fascia d’età 15-44 anni
Nel 2030 l’andamento demografico dice che nel Padovano mancheranno 146.677 lavoratori. La scure della denatalità è il problema numero uno del mondo del lavoro. Dai dati di Veneto Lavoro si deduce che tra sette anni la fascia d’età 15-44 anni, ovvero l’iniezione di energia alla produzione, subirà un colpo pesantissimo: mancheranno all’appello 404.829 lavoratori.
Chi resta nelle aziende
Le aziende non hanno molta scelta: dovranno contare sulla fascia 45-64 anni (ma, appunto, non basteranno a colmare tutti i vuoti), che farà da bilanciere, e dovranno cambiare strategie di gestione. Il lavoratore oggi va corteggiato e le armi di seduzione sono principalmente due: il welfare aziendale e il lavoro a tempo indeterminato (che nella provincia di Padova cresce dal 2017 e oggi i contratti indeterminati sono 38.445).
Lo spiega il direttore di Veneto Lavoro, Tiziano Barone: «Eravamo abituati a sentire l’azienda dire “le faremo sapere”, adesso è il candidato a rispondere “le farò sapere”». Potrebbe sembrare una bella notizia, e in parte lo è perché questo nuovo contesto dimostra che non è sempre il mercato a dettare le regole. Ma è indubbiamente una pessima notizia per il calo demografico e per chi ha una bassa qualifica professionale che, invece, rischia di rimanere bloccato nelle sabbie mobili del precariato.
Il nodo dei flussi migratori
Non bastasse, dal 2008 ad oggi si è susseguita una crisi dietro l’altra: «Nel drammatico inverno grigio delle nascite, mentre i flussi migratori non sono gestiti nel migliore dei modi», riferisce il presidente di Ascom Confcommercio, Patrizio Bertin, «noi imprenditori facciamo i conti con una forza lavoro fortemente carente, con le crisi del 2008 e del 2010 e, negli ultimi due anni, con Covid, gli aumenti delle materie prime, l’inflazione, la questione energetica. Cosa dobbiamo aspettarci dai prossimi anni?».

Tiziano Barone, direttore di Veneto Lavoro
Le prospettive di crescita
Prova a rispondere il direttore Barone: «Viviamo un cambiamento continuo», sottolinea. «Nel Padovano c’è uno spazio di crescita importante, basti pensare che dal 2008 avevamo perso 11 mila lavoratori, ma dal 2014 ne abbiamo riconquistati 52 mila. Tuttavia bisogna tener conto che oggi il lavoro ha tre grandi caratteristiche. Uno, i posti sono rapidamente distrutti in un settore e ricostruiti in un altro. Due, la polarizzazione tra alte qualifiche e basse qualifiche è sempre più marcata. Questo significa che chi ha competenze utili al mercato ha grande possibilità di scelta, ma chi non le ha rischia di rimanere bloccato. Qui serve una formazione continua. Infine il mismatching, ovvero domanda e offerta: lo scorso mese nel Padovano erano previste 7.290 entrate complessive, eppure la difficoltà di reperimento è molto alta, nella ristorazione addirittura del 60%, tra ridotto numero di candidati (41,1%) e competenze inadeguate (18%)».
Su cosa puntare
Cosa fare Barone lo sa bene: «Servono con urgenza politiche familiari, una gestione più efficace dei flussi migratori, presidiare il capitale umano e puntare sulla formazione, sia da parte dell’azienda che del lavoratore. I nostri Centri per l’impiego sono come il medico di base: distribuiti capillarmente, con una banca di 6 mila offerte di lavoro al mese e i pacchetti regionali di assistenza. La responsabilità verso le competenze è libera, ma c’è una sorta di obbligo formativo “etico” per il lavoratore e per il datore di lavoro. Questo è un passaggio culturale importante: il cambiamento è inesorabile, eppure il 50% delle persone che si rivolgono ai centri per l’impiego non è in grado, ad esempio, di sostenere un colloquio di lavoro a distanza».
I sindacati: formazione e incentivi governativi

I sindacati chiedono di fare dell’immigrazione una risorsa per il lavoro
«Il problema demografico è innegabile. Siamo di meno e dobbiamo lavorare di più». Dario Verdicchio, segretario Fillea Cgil, è amaramente realistico. Ma non rassegnato: «Cominciamo a chiamare le persone che muoiono nel Mediterraneo lavoratori e non profughi. Facciamo dell’immigrazione una risorsa per risolvere un problema che è nostro. Le aziende devono recitare un mea culpa: il lavoratore che gli serve ha bisogno di investimenti, non viene fuori dalla scuola, va formato, ma le aziende hanno tirato alle estreme conseguenze l’allungamento della pensione e oggi non hanno chi sostituisca i lavoratori in uscita. La polarizzazione è un falso problema: il lavoratore dequalificato è più fragile perché la formazione non gli viene riconosciuta, perché un raccoglitore di pomodori o un operaio di un’impresa pubblica fa un “lavoretto”. Invece quel lavoro è dignitoso e importante e ha diritto alle stesse garanzie degli altri. Questa non si chiama polarizzazione ma svalorizzazione del lavoro e riguarda, ad esempio, anche un neo laureato perché risponde alle regole spietate del mercato».
Samuel Scavazzin, segretario generale della Cisl, aggiunge: «Il rischio, nei momenti transizione, è che il lavoratore con basse qualifiche resti imbrigliato nel perverso meccanismo del ribasso». Cosa fare? Una parola: formazione. «La professionalità è sempre un vantaggio», continua Scavazzin. «Ma è una strada che deve indicare il governo con incentivi; politiche familiari per correre ai ripari della denatalità; flussi migratori che rispondano al bisogno di integrazione lavorativa e al diritto alla dignità della persona».
I commenti dei lettori