L’orefice che morì dopo la rapina, la pista della Mala del Brenta: ecco quello che sappiamo
L’assalto in piazza delle Erbe, il 7 aprile 1989, si era concluso con una sparatoria e il decesso per infarto del titolare Gino Vanotti poche ore dopo. I colpevoli non erano mai stati individuati. La Procura di Padova mette sotto inchiesta Antonio Pandolfo, ex boss della Mala. Un altro cold case che si riapre
Cristina Genesin, Enrico Ferro, Edoardo Fioretto
Antonio "Marieto" Pandolfo, indagato per la rapina che costò poi la vita a Gino Vanotti (a destra)
Un altro cold case che si riapre a Padova. Nuova inchiesta sulla rapina all’oreficeria Vanotti, in piazza delle Erbe, che il 7 aprile 1989 costò la vita al titolare Gino Vanotti, 82 anni, picchiato dai banditi, il quale morì al suo arrivo in ospedale, stroncato da un infarto. Mai rintracciati i tre del commando, pronti ad abbandonare il bottino per mettersi in salvo. E sparire nel nulla.
Quasi 34 anni dopo si ripare il caso, per iniziativa del pm padovano Roberto D’Angelo, lo stesso che, 31 anni più tardi, ha ripreso in mano l’inchiesta sull’assassinio di Matteo Toffanin, il 23enne di Roncaglia di Ponte San Nicolò, ucciso nel quartiere Guizza la sera del 3 maggio 1992, per uno scambio di persona.
Oggi indagato per l’assalto alla gioielleria c’è Antonio “Marietto” Pandolfo, 68enne veneziano originario di Dolo, un pezzo da novanta della mala ai tempi del suo dominio in Veneto. Un uomo che non temeva nessuno, nemmeno il boss Maniero.
La vicenda
Una settimana prima della rapina un signore si presenta nella gioielleria Vanotti, ordinando una scatola-portatabacco in argento con una dedica (“alla mia cara zia”). La sera del 7 aprile lo stesso uomo, che si era qualificato come il signor Gardelli, entra nel negozio. E, con lui, due sconosciuti. Il commesso riconosce Gardelli e gli mostra la scatola.
Ma quest’ultimo apre l’impermeabile ed estrae una pistola mentre i due complici rinchiudono in una stanza il commesso e altri dipendenti sono costretti a mettersi sotto il bancone. Gino Vanotti è raggiunto in uno stanzino dov’è picchiato a sangue pure con il calcio di una pistola, costretto ad aprire la cassaforte, poi legato e imbavagliato con il nastro da pacchi.
I tre arraffano quanto possono. Tuttavia sotto i portici un brigadiere dei vigili si accorge di quello che sta accadendo: si nasconde dietro a una colonna e, pistola in mano, attende l’uscita dei banditi che escono fuori e sparano contro il vigile che ha appena esploso un colpo in aria. E contro la gente.
Passano gli anni e il caso va in archivio. Qualche tempo fa Stefano Galletto, il pentito che ha contribuito a smantellare la ricostituzione della mala e ora vive sotto protezione, invia un memoriale in procura: durante la detenzione era rinchiuso in una cella con Pandolfo. E quest’ultimo gli avrebbe raccontato con dispiacere del «vecchio» morto in seguito alla rapina in piazza delle Erbe. Il pm D’Angelo riapre l’indagine. Galletto e Maniero vengono interrogati sul colpo e, in uno degli identikit che “descrivono” il volto dei rapinatori, avrebbero riconosciuto il padovano Sergio Favaretto, oggi un uomo libero, mai indagato per la rapina da Vanotti.

L'esterno dell'oreficeria Vanotti, in piazza delle Erbe a Padova
Il nipote della vittima
«Ci avevamo messo una pietra sopra. Il tempo per il lutto c’è stato. Ma non sono sicuro che riaprire il caso a più di 30 anni di distanza possa cambiare le cose: noi restiamo in attesa, ma non vogliamo illuderci che si trovino i colpevoli». Il colpo all’oreficeria Vanotti aveva sconvolto la città: per una sera l’aveva fatta sentire vulnerabile, esposta alla malavita. La barbara rapina in piazza delle Erbe, la sera del 7 aprile 1989, si era conclusa con una sparatoria e la morte per infarto del titolare poche ore dopo; l’uomo era stato percosso e legato nel retrobottega.
La decisione del pm Roberto D’Angelo di riaprire il caso sulla vicenda indagando l’ex della Mala Antonio Marietto Pandolfo, ha ricevuto reazioni contrastanti da parte dei familiari della vittima: da un lato persiste la loro volontà di avere giustizia e l’inchiesta della Procura è una risposta in tal senso, dall’altro c’è il timore che si riaprano ferite molto dolorose che speravano essere state chiuse definitivamente.
E mentre dalle indagini sembrano emergere elementi che farebbero pensare al coinvolgimento della Mala del Brenta di Maniero, nei familiari si ripresentano i frammentari ricordi di quella tragica sera. «Dopo tutti questi anni, temiamo sia difficile che la riapertura del caso possa cambiare le cose per noi», ha commentato Maurizio Mazzoni sollevando le spalle in segno di rassegnazione.

I funerali di Gino Vanotti, il 12 aprile 1989
Mazzoni è il nipote del commendatore Vanotti, oggi titolare della storica gioielleria fondata nel 1947. «Posso capire quale sia il contesto per cui sia stato deciso di riaprire il caso, come conseguenza alla riapertura di quello della tragica quanto sfortunata morte di Matteo Toffanin. Due morti unite dall’impronta della Mala del Brenta», osserva Mazzoni. «Giustamente i familiari di Toffanin chiedono giustizia, per sapere se il loro caro è stata vittima delle mafie. Ucciso perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato», aggiunge poi, «Dall’altra parte la rapina noi l’abbiamo subìta, ed è stato drammatico. Ci era stata prospettata una soluzione del caso con l’individuazione dei colpevoli, ma le indagini finirono in modo diverso. Ci illudemmo i colpevoli si potessero trovare. Ma non fu così».
Si dice che il tempo sana le ferite, e questo è in parte vero anche per la famiglia di Vanotti. «Vedere il caso riaperto riaccende la memoria e i ricordi sono tristi; ricordi in qualche modo sfumati, un capitolo doloroso che avremmo voluto dimenticare. Io stesso, che quel giorno mi trovavo in bottega con mio zio, non ho che qualche ricordo frammentario. È stato un momento molto difficile e molto spiacevole nella vita di tutti noi, e abbiamo fatto tutto il possibile per cercare di andare avanti», chiosa il titolare della gioielleria. «La tragedia c’è stata, e il lutto lo portiamo ancora dentro, quello è sicuro. Le indagini saranno lunghe e complesse e chissà se porteranno a qualcosa. Quel che dico è che non voglio illudermi di nuovo». Sull’ipotesi del coinvolgimento dell’ex uomo di Maniero, Sergio Favaretto, Mazzoni ha delle riserve. «Forse era lui il basista, quel quarto uomo che era rimasto fuori dalla gioielleria e che aveva sparato al vigile urbano da dietro al lampione all’angolo di via Squarcione. I tre che erano entrati parlavano tutti con un accento spiccatamente meridionale e non credo fingessero».
Pandolfo
Antonio Pandolfo, detto Marietto, oggi ha un solo pensiero in testa: non tornare nel luogo in cui ha già trascorso 30 anni della sua vita. La galera. Da marzo 2020 è un uomo libero, o quasi. Il regime di sorveglianza speciale lo limita negli spostamenti e nelle frequentazioni ma dorme a casa sua, mangia a casa sua e lavora. Da quando è uscito dal carcere lavora all’ospedale di Dolo. Spinge i carrelli con pranzi e cene attraverso i vari reparti. Ha 68 anni ed è un sorvegliato speciale: non può guidare, non può uscire la sera e deve firmare ogni giorno in caserma. È tornato a vivere con la sua famiglia, con la moglie Nicoletta e con il figlio quarantenne, nell’appartamento al terzo e ultimo piano di una palazzina di edilizia popolare. Vive a Dolo, lì dove ha iniziato a scrivere la storia criminale del Veneto. Ora però, a dispetto di questa quiete apparente, c’è il passato che lo tormenta. A metà aprile inizierà il processo per la Mala del Tronchetto, nel corso del quale dovrà difendersi da una serie di accuse che gli vengono mosse dai suoi ex sodali. C’è però anche questa nuova tegola che piomba sulla vita tranquilla di un uomo irrequieto. La Procura di Padova l’ha iscritto nel registro degli indagati per una rapina successa 34 anni fa, il 7 aprile 1989, quando tre banditi assaltarono la storica gioielleria
Vanotti. Picchiarono il titolare ottantaduenne e fuggirono in mezzo alla folla sparando contro un vigile urbano. Gino
Vanotti, picchiato e legato, morirà al suo arrivo in ospedale, stroncato da un infarto.
Come esce il nome di Pandolfo a 34 anni di distanza? Grazie a un pentito. Stefano Galletto, colui che ha contribuito a smantellare la ricostituzione della mala e ora vive sotto protezione, ha inviato un memoriale in procura. Durante un periodo della sua detenzione era rinchiuso in una cella con Pandolfo. E quest’ultimo gli avrebbe raccontato con dispiacere del “vecchio” morto in seguito alla rapina in piazza delle Erbe. «Abbiamo appreso la notizia dai giornali» ammette Alessandro Menegazzo, avvocato di Camponogara che segue l’ex sanguinario della banda Maniero. Pandolfo ha vissuto con molto fastidio gli sviluppi giudiziari di questi ultimi due anni. «Mi hanno tirato dentro la storia della Mala del Tronchetto, anche se non c’entro». Adesso anche la rapina alla gioielleria Vanotti. «Io ormai lavoro e rigo dritto, non ho nessun legame con questa gente. Voglio che mi lascino in pace», continua a ripetere Pandolfo a chi gli sta vicino. Il timore è che con tutte queste vicende giudiziarie aperte, prima o poi, si possano spalancare nuovamente le porte del carcere.
C’è poi un altro pensiero che lo tormenta, una tesi che non ha appigli concreti ma che rischia di risultare credibile. Maniero e Pandolfo non potranno mai essere uomini liberi contemporaneamente. Ora Maniero è in carcere per maltrattamenti nei confronti della moglie e Pandolfo è libero. Ma non è escluso che quando Felicetto uscirà, Pandolfo possa tornare dentro in virtù di questi nuovi carichi giudiziari.
Teorie del complotto? Può essere. Ma non è un mistero che Marietto, il più sanguinario dei banditi della Mala del Brenta, l’abbia giurata a Faccia d’angelo. Per evitare una vendetta, meglio essere certi che vivano separati gli anni che restano. —
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