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Maria Vittoria Nesoti, medico al Sant’Antonio di Padova: «In sanità le donne ai vertici non sono più una rarità»

La dottoressa: «Ci aiuta l’essere multitasking. Un servizio sempre più vicino ai cittadini e ai loro bisogno diffusi»

Simonetta Zanetti
4 minuti di lettura
Maria Vittoria Nesoti al Sant’Antonio 

Nel suo profilo whatsapp si legge: «Le sussurrarono “non puoi resistere alla tempesta”. “Io sono la tempesta”, sussurrò lei di rimando». E quando incontri la dottoressa Maria Vittoria Nesoti, ti ritrovi a pensare che raramente citazione è stata più azzeccata. Non se si pensa a un evento distruttivo, da case scoperchiate, ma a un fenomeno inarrestabile, sicuramente ineluttabile, di quelli di cui nel tempo rimane traccia.

Quarantasette anni, una passione per i gatti – «più che altro convivo con Frida» scherza – la dottoressa Nesoti è specializzata in Igiene e medicina preventiva. Dopo l’esperienza a Verona, nel 2016 è tornata a Padova nella direzione medica dell’Azienda Ospedale Università e da un anno e una manciata di giorni dirige l’ospedale Sant’Antonio – «ho vinto il concorso» precisa quasi senza accorgersene – con il compito, tutt’altro che semplice, di cucire i servizi del mastodonte di via Giustiniani con quelli di via Facciolati, evitando che “saltino i punti” o, peggio, che venga un rammendo grossolano. Con la sua nomina quindi, l’Azienda ha ripreso per mano il progetto inghiottito sul nascere dalla pandemia: due mesi dopo il passaggio del Sant’Antonio all’Azienda, l’Italia finiva in lockdown.

Nella giornata internazionale della donna, si fanno necessariamente bilanci e si rispolvera il “tetto di cristallo”. Quanto è stato difficile per lei raggiungere un ruolo di vertice in una struttura sanitaria?

«È un percorso che si fa con la consapevolezza dell’impegno necessario per arrivare, ma non ho sperimentato altri tipi di difficoltà. Posso dire che la mia esperienza si è basata sulla meritocrazia, non ho dovuto misurarmi con particolari “chiusure”. Del resto, va detto che le donne ai vertici in sanità non sono una rarità nel Padovano: penso a Chiara Bovo che dirige Schiavonia, Emanuela Zilli a Cittadella e Milvia Marchiori a Camposampiero. Spero di non dimenticare nessuna, ma potrei continuare con altri esempi in tutto il Veneto».

Sembra quindi che quello da dirigente di una struttura sanitaria sia un ruolo particolarmente adatto alle donne. Secondo lei per quale motivo?

«Credo che il nostro essere multitasking sia essenziale per questo incarico (ride ndr), che la capacità di confrontarsi su più livelli e una visione ampia siano caratteristiche che, senza dubbio, appartengono alla nostra forma mentis».

Prima ha accennato all’impegno necessario per arrivare a certi livelli. A questo punto quanto il lavoro “corrode” la vita privata?

«Questo è un lavoro totalizzante proprio perché attiene alla cura della persona, per cui il tempo diventa un concetto estremamente elastico. Tuttavia gli sforzi sono ripagati, non solo dai risultati sul campo, ma anche dalla tenerezza e dalla soddisfazione che si avvertono quando un paziente un po’ in difficoltà ti fa un sorriso e ti ringrazia semplicemente perché lo hai aiutato in una prenotazione o a trovare l’ambulatorio che cercava».

Quanto difficile è stato, invece, dal punto di vista operativo, passare a dirigere un ospedale “nuovo” per il sistema Azienda?

«È stato sfidante, impegnativo. È un ospedale che si sta trasformando: era già ricco di competenze e di centri importanti che ora si stanno fondendo sempre di più con quelli di via Giustiniani».

Concretamente, qual è oggi il rapporto tra il Sant’Antonio e l’Azienda? Cosa trovo da una parte che non trovo dall’altra?

«Sono due ospedali che fanno parte della stessa Azienda e sono sempre più integrati. Sta prendendo piede in modo sempre più importante il disegno che, a causa della pandemia, era stato necessariamente posticipato rispetto a situazioni più urgenti ed emergenti. Il Sant’Antonio è sempre stato identificato come l’ospedale della città e questo è molto bello, è un ottimo punto di partenza. Da un lato si percepisce il gioco di squadra, perché la gente lavora insieme da molto tempo e, dall’altro, l’utenza lo identifica un po’ come il punto a cui rivolgersi per i propri bisogni sanitari.

E noi stiamo valorizzando questa caratterizzazione perché per noi è un valore aggiunto: stiamo facendo sempre più in modo che questo sia l’ospedale che risponde ai bisogni diffusissimi della popolazione. Inoltre, si sta caratterizzando per una attenzione verso le patologie croniche e dell’età avanzata. Infatti ci sono le due geriatrie, la medicina generale, la gastroenterologia con i suoi screening. C’è la cardiologia che è uno dei migliori esempi di integrazione: c’è stato uno scatto in avanti nella gestione degli impianti di pacemaker che restando in via Giustiniani sarebbe stata più complicata.

C’è un’attività fisiatrica molto importante anche a fronte dell’attivazione dell’ospedale di comunità e un grande servizio di dialisi, la radiologia, l’endoscopia digestiva, la farmacia e l’ortopedia, con grandi volumi di attività. E la chirurgia che fa molto di funzionale: siamo centro di terzo livello per incontinenza. E poi ci sono le eccellenze dell’oculistica e dell’otorinolaringoiatria. Ma potrei continuare. Chi ha scelto di restare ha avuto strumenti importanti per esprimersi».

Cos’è cambiato da quando non è più dell’Usl 6?

«La grande integrazione con l’Azienda. L’ospedale di via Facciolati sta assumendo la connotazione di un ospedale sempre più vicino ai cittadini e ai loro bisogni più diffusi laddove in via Giustiniani ci sono per lo più attività altamente specializzate. È un ospedale che è cresciuto e che ha peculiarità nuove. Tra le altre cose, puntiamo molto sui servizi dedicati a cronicità ed età avanzata. Le dimensioni della struttura consentono di fare in modo routinario, più agile e veloce, una serie di servizi che rispondono ai bisogni della popolazione. In ospedali molto più grandi il sistema è, ovviamente meno diretto. Non è un doppione, né un ospedale di serie B».

Dopo anni di polemiche che hanno accompagnato la chiusura delle geriatrie, quella dell’aging sembra una svolta interessante.

«In questo senso va anche l’attivazione di 28 posti dell’ospedale di comunità al nono piano, che in futuro ne conterà altri 22. È una struttura intermedia che consente di gestire pazienti che non possono essere dimessi. È il primo in città ed è importante anche dal punto di vista psicologico per i malati che vivono qui non doversi spostare in provincia. Per fine marzo avremo una cartella specifica per questo tipo di assistenza che prevede una gestione complessa dal punto di vista amministrativo».

Qual è la sfida adesso?

«Visto che abbiamo tutti i servizi, dal Pronto soccorso all’ospedale di comunità, ci piacerebbe sistematizzare il percorso dei pazienti per intensità di cura, rendendolo più fluido. La sfida è gestire il Sant’Antonio in maniera diversa unendo il “local” con “l’universale”: è un modo per pensare in maniera differente la sanità. Realizzando un ponte tra due ospedali e di frontiera rispetto al territorio».

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