Il canale Alicorno, quella linea d’acqua sacrificata da una città che sognava da metropoli
Nel 1953 il progetto di coprire il canale viene affidato dal Comune di Padova al prof. Francesco Marzolo. La città e la politica sono favorevoli. Gli unici no del poeta Diego Valeri e l’autore Luigi Gaudenzio. Il silenzio del Bo
Francesco Jori
Per oltre sette secoli ha accompagnato la vita dei padovani. Poi, per oltre settant’anni, è sparito alla loro vista. Adesso, si prepara a rivedere, sia pure parzialmente, la luce. Il canale Alicorno appartiene a tutto tondo alla vita della città, delimitandone i confini ideali del centro storico fin da quel 1230 in cui viene scavato, ricavandone le acque dal Bacchiglione in prossimità del bastione omonimo, per poi attraversare il Prato della Valle e confluire nel canale Santa Chiara a valle di Pontecorvo, andando a formare il San Massimo.
La decisione di tombinare
In realtà del suo tombinamento si comincia a parlare già nel 1922, sotto la spinta di due motivazioni di fondo: l’assenza di progetti per lo smaltimento delle acque fognarie, e la pesante incuria nella manutenzione delle acque interne, fattori che compromettono la condizione della rete idrica cittadina.
Non se ne fa nulla, e il percorso riparte nel dopoguerra, giusto settant’anni fa: quando alla vigilia del Natale 1953 il Comune affida un incarico a uno dei più illustri cattedratici dell’Ateneo, Francesco Marzolo, che consegna il proprio elaborato nel giro di soli tre mesi. Sfonda non una porta, ma un portone.
Sono gli anni della ripresa di Padova dopo i guasti provocati da due devastanti guerre mondiali in trent’anni, con una serie di ambiziosi progetti di rilancio, agganciati a uno slogan all’epoca molto popolare: fare della città la Milano del Veneto.
L’opinione pubblica è largamente schierata dalla sua parte. Il suo progetto fa leva sul proposito di migliorare le condizioni igieniche dell’area, oggettivamente molto scadenti. Ma soprattutto, Marzolo è sostenuto dal favore pressoché unanime dell’intero consiglio comunale.
In quella fase la maggioranza è detenuta saldamente dalla Democrazia Cristiana, guidata fin dal 1947 dal sindaco Cesare Crescente, che regge le sorti della città per 23 anni, fino al 1970.
Su questa partita peraltro è pienamente e convintamente sostenuto anche dall’opposizione di sinistra, che addirittura avanza la proposta di estendere il tombinamento fino al ponte Belludi, richiesta che peraltro non troverà seguito.
Il “no” di Valeri e Gaudenzio
A corredo di questo clima diffuso va registrato anche il sostegno totale e convinto dei professionisti, in testa l’ordine degli ingegneri e quello degli architetti
. Ci sono solamente due eccezioni individuali di alto prestigio, che vanno sottolineate per il loro spessore. Entrambe vengono da due delle più prestigiose figure di intellettuali padovani dell’epoca.
Uno è il grande poeta Diego Valeri, esponente di punta del mondo della cultura padovana, innamorato della città e di Venezia (dove tra l’altro ricoprirà il ruolo di Sovrintendente alle Belle Arti): manifesta pubblicamente il suo dissenso allo stesso sindaco, cui pure è legato da profondi rapporti di stima reciproca.
L’altro è uno dei principali protagonisti della vita culturale della Padova dell’epoca, Luigi Gaudenzio; il quale, rivelandosi buon profeta, spiega che quella misura, oltre a snaturare il volto della città, non varrà minimamente a risolvere il problema del traffico; anzi, destinato a esplodere impietosamente, come toccheranno con mano i padovani di ieri e di oggi.
Gaudenzio rincara la dose con una caustica annotazione: «Tutti i canali, svuotati naturalmente o volutamente dalle loro acque, presentano lo stesso guaio, compreso il Canal Grande di Venezia, che nessuno tuttavia si sogna di coprire».
Il silenzio dell’Università
Ma la sua voce e quella di Valeri cadono nel deserto più totale: l’intero corpo accademico dell’Ateneo in particolare si esibisce in un fragoroso silenzio.
Su queste premesse, la delibera viene portata in consiglio comunale il 10 febbraio 1955, e passa senza il minimo problema, praticamente senza neppure l’ombra di discussione, nel giro di appena un quarto d’ora.
I cantieri aprono il 21 settembre 1956, infliggendo pesanti costi urbanistici e architettonici alla città.
A partire dallo storico palazzo Arnholt, straordinario edificio cinquecentesco attribuito ad Andrea Moroni, l’architetto a cui si deve l’attuale sede del Comune. È tutelato da un vincolo, che peraltro viene rimosso, su richiesta dello stesso proprietario dell’epoca. Tale Ivone Grassetto, esponente di punta della potente dinasty edilizia della città.
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