Padova, nasce il manifesto contro l’Università-impresa
Il documento firmato da un gruppo di docenti: «Tecnologia e innovazione non devono guidare l’insegnamento»
Simonetta Zanetti
PADOVA. Un manifesto per difendere l’Università dalla svolta aziendalista. È questo il cuore del documento realizzato da un gruppo di docenti dell’Ateneo dopo una riflessione nata durante il lockdown e cresciuta nel tempo assieme al concetto di didattica mista. Una critica che coinvolge anche la gestione di Rosario Rizzuto.
Attorno al tavolo – virtuale – l’espressione di diverse aree scientifiche e molteplici settori disciplinari: «Ci siamo soffermati a ragionare sulle trasformazioni in atto da oltre vent’anni nell’ambito dell’Università, una svolta in termini aziendalistici, in cui l’ateneo è produttore di servizi per gli studenti-clienti, ma si tratta di un modello molto scivoloso che corre il rischio di mettere in crisi una comunità fatta di saperi e persone» spiega Luca Illetterati, ordinario di Filosofia Teoretica del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata che si è occupato della stesura del manifesto che nel giro di poche ore dalla pubblicazione, senza alcuna pubblicità, ha trovato la condivisione e l’adesione di una sessantina tra i colleghi di Parma e dell’Istituto di studi filosofici di Napoli: «Sia chiaro, tuttavia, che non siamo nostalgici del vecchio modello ma non riteniamo di accogliere tutto quello che sta succedendo come necessario» chiarisce Illetterati «siamo semplicemente convinti che le università pubbliche abbiano subito una progressiva trasformazione in senso aziendalistico-gestionale, diventando player nel mercato globale della formazione e della conoscenza, retto da principi di conoscenza e di competizione, in cui la soddisfazione degli studenti-clienti è diventata il perno su cui organizzare e valutare la vita accademica. Questa è una questione, tutt’altro che trascurabile, su cui vorremmo sollecitare i tre candidati».
Un dibattito nato dall’accelerazione della trasformazione imposta dall’emergenza, che ha acceso i riflettori su questioni quali la creazione di una didattica non ancorata al passato né tecnocratica e sulla necessità di ridare forza a una ricerca di base «non già finalizzata a una dimensione applicativa». Oltre che sul cambio dei modelli di governance rispetto a «un’Università manageriale in cui si perde il senso di autogoverno e in cui il rettore, un tempo primus inter pares, è diventato sempre più simile a un manager, il cui operato è guidato da criteri economicistici». In una visione di Università in cui è il ranking – migliore reputazione, maggiori iscritti e più soldi a disposizione – «e gli atenei diventano agenzie di comunicazione che puntano su informazioni che creano appeal e le ricerche stesse vengono scelte in base alle caratteristiche di comunicabilità», aggiunge.
Questa iniziativa, assicura tuttavia il docente universitario, non cela schieramenti preconcetti a favore o contro l’uno o l’altro dei tre candidati alla successione di Rosario Rizzuto: «Le posizioni sono ancora in via di formazione, motivo per cui noi in settimana abbiamo inviato loro il manifesto e ora siamo a sollecitarli e a provocarli sul tema» prosegue «in questi anni – chiarisce tuttavia – l’Ateneo ha dimostrato a sua volta una tendenza un po’ tecnocratica e tesa all’annuncio, spingendo alla competizione laddove le università costituiscono una comunità. Quanto fatto durante l’emergenza ha richiesto un grandissimo sforzo e l’Università del futuro non ha paura della tecnologia e dell’innovazione ma queste non devono essere il principio che guida l’insegnamento quanto un mezzo che viene utilizzato a seconda delle necessità. Né c’è nulla di male nel curare i rapporti con le aziende, ma non bisogna ridursi a un service».
In una critica in cui i focolai si accendono ovunque, dalla Francia agli Usa, Padova si pone quindi come voce guida e ora, alla vigilia delle elezioni del nuovo rettore, punta ad accelerare sulla svolta: «Ormai il 40-50% dell’attività dei docenti è dedicata alla burocrazia, questo significa che vengono pagate professionalità super specializzate per svolgere lavoro impiegatizio» conclude Illetterati «per non parlare delle borse di studio post dottorato in cui i ricercatori, invece che potersi concentrare sulla ricerca, sono costretti a passare il loro tempo a scrivere progetti per ottenere un’altra borsa di studio. Quindi rischiamo di pagare persone che devono dimostrare di essere brave a progettare invece che a fare. E questo perché, ancora una volta, si punta alla funzione comunicativa della ricerca, basata sulla moda del momento più che sull’importanza del risultato stesso». —
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