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Al Museum of the City of New York gli scatti di Francesca, la fotografa padovana che narra gli States nel lockdown

«I curatori del progetto #covidstoriesnyc hanno scelto il mio scatto di Anthony, il parrucchiere che tagliava i capelli sotto il ponte di Williamsburg a Brooklyn»

Elvira Scigliano
2 minuti di lettura
Francesca Magnani di fronte alla foto esposta al Museum of the City of New York il giorno dell'inaugurazione della mostra "New York Responds". Foto di Veronica Caro. 
PADOVA. Francesca Magnani, padovana, ha narrato gli States e i newyorkesi agli italiani ed oggi è una delle “voci” che con le sue foto racconta il lockdown di New York. Tanto da partecipare alla mostra del Museum of the City of New York che espone la quotidianità della metropoli ai tempi del virus. 
 
Francesca, come sei stata scelta?
 
«Il progetto è nato su Instagram con l'hashtag #covidstoriesnyc. Sono arrivate migliaia di immagini ed hanno scelto il mio scatto di Anthony (Payne): un parrucchiere che tagliava i capelli sotto il ponte di Williamsburg, a Brooklyn. Quando l'ho incontrato, ho visto un ragazzo bello, padrone di sé, con una sedia e uno specchio sotto il ponte. Ho visto un luogo squallido reso bellissimo da quel volto illuminato dall'ultimo raggio di sole prima del tramonto. Partecipare alla mostra ha un grande significato, sia perché parliamo del museo della città; sia perché le foto sono state attaccate ai muri esterni: mi piace che le mostre siano fruibili gratuitamente, camminando e respirando. È una formula che ho già sperimentato»
 
A New York con la mostra sue vie d'acqua: Gente del ferry. E a Padova, con l'esposizione alla galleria Samonà (Street stories tra Padova e New York)?
 
«Esatto. Le foto sull'acqua hanno una lunga gestazione: da tre anni mi sono concentrata su questo mezzo di trasporto che è usato come un bus. Nessun altro fa queste foto, invece per me sono contemplative: vedo quello che ho dentro di me, quello che mi manca. Pensare che la ditta dei trasporti si sia rivista nelle mie foto ha dell'incredibile: con tutti i fotografi che ci sono a New York hanno scelto una padovana per rappresentare i ferry. L'ultima serie invece è recente, tra fine agosto e primi di settembre, infatti le persone indossano la mascherina: in tutti ho visto un riflesso dell'anima, un insieme di incognite fatto di linee che si incontrano».
 
La tua poetica, nelle fotografie, sembra sempre tendere verso qualcosa, ma torni costantemente nello stesso posto: a cosa dai la caccia?
 
«Se vado indietro, anche di anni, troverò la stessa strada fotografata di continuo. Alla fine conosco tutto del luogo che fotografo. C'è un racconto di Jorge Luis Borges – Funes, o della memoria – in cui il protagonista ricorda tutto, ma proprio tutto quello che ha fatto nella sua vita: è una condanna. La sua descrizione mi ricorda quello che provo a volte: ho vissuto questi 23 anni, a New York, di negozi, incontri, angoli di strade. Come il protagonista di Borges mi pare quasi di ricordare ogni albero ed ogni riflesso di ogni ora su ogni foglia.
 
 
E cosa dà inizio alla magia?
 
«A volte mi colpisce un colore, una maglietta, una borsa, in queste settimane le mascherine».
 
Cosa ha significato per te fotografare la pandemia mondiale?
 
«Ero qui l'11 settembre 2001. Ero qui durante l'uragano Sandy. Ho sempre visto la città rialzarsi. Questa è l'unica volta che percepisco il senso dell'ignoto. Quando le strade sono diventate improvvisamente deserte, la città faceva paura. Quando hanno chiuso tutto mi sono fatta forza ed ho continuato a uscire, non perché sia temeraria, ma perché uscire e camminare (che non era vietato) era l'unica cosa che mi teneva in contatto con la realtà. Ho iniziato ad osservare la gente: le persone hanno iniziato a vivere negli “stoops” (le scalette tipiche nelle strade residenziali), ci mangiavano, chiacchierava. Come noi sui terrazzini: una via di fuga dalla claustrofobia».
 
Negli Usa dal ’97 ha costruito ponti culturali
 
Era il 1997 quando Francesca, appena laureata in Letteratura latina, volò a New York con una borsa di studio Fulbright. Da allora la padovana Francesca Magnani ha insegnato alla New York University, ha scoperto la fotografia, ma soprattutto ha trovato se stessa. In questi 23 anni ha costruito ponti: culturali, relazionali, intellettuali.
 
Ma Francesca pensa alla possibilità di tornare a casa? «Ci penso spesso. Non ho perso la mia identità: qui ho portato la mia padovanità. Mi piacerebbe portare nella mia città le foto della pandemia: sarebbe l'occasione migliore per “tornare” portando con me NY. Chissa, magari il Comune o un ente privato avrà l'intuizione di un progetto.
 
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