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Caporalato, marito e moglie in manette

Clandestini sfruttati nella loro fattoria e pagati pochi spiccioli all’ora, umiliati e trattati come animali in gabbia

di Cristina Salvato
2 minuti di lettura

ALBIGNASEGO. L’imprenditore agricolo Walter Tresoldi e la moglie Fanica Hodorogea sono finiti in manette ieri mattina, in seguito a una lunga indagine svolta dai carabinieri di Albignasego, insieme all’Ispettorato del lavoro, all’Inps e allo Spisal. Gravissime le accuse rivolte ai due: caporalato e inosservanza delle leggi sull’immigrazione e sul lavoro, oltre che a lesioni personali e al mancato versamento dei contributi pensionistici. Per anni hanno fatto lavorare nei loro campi, in cui coltivano cipolle, rape e topinambur, braccianti stranieri sottopagati, maltrattati, privi di contributi previdenziali né sicurezza, spesso in “nero”, umiliati e percossi, costretti a vivere ammassati in tuguri in cambio pure di una parte della già miserabile paga: lavoravano minimo dieci ore al giorno per 3 euro l’ora, quando il contratto nazionale ne prevede 9. Controllati dentro e fuori il capannone da una telecamera. Su disposizione del giudice per le indagini preliminari Domenica Gambardella ieri mattina Walter Tresoldi (49 anni) è stato prelevato dalla sua azienda a Carpanedo di Albignasego e portato al carcere Due Palazzi, mentre la moglie Fanica Hodorogea (47 anni) si trova ai domiciliari nella loro casa di Abano. Una terza persona, un bengalese di 44 anni residente a Padova, risulta latitante. Tresoldi è il titolare dell’azienda agricola, la moglie svolgeva l’incarico di responsabile del magazzino, il bengalese era il reclutatore della manodopera di connazionali, costretti a rivolgersi agli usurai o a svendere i beni di famiglia per pagare cifre che andavano da ottomila a diecimila euro pur di arrivare in Italia con la prospettiva di un lavoro: arrivano tutti da zone poverissime e necessitano di aiutare le famiglie. Al momento del controllo– da cui sono scaturite le lunghe e articolate indagini – a gennaio dello scorso anno dentro il capannone di via Maroncelli a una temperatura di meno 5 gradi c’erano una decina di operai (di cui quattro clandestini), provenienti da Bangladesh, Romania e Marocco. Uno scenario agghiacciante si è presentato alle forze dell’ordine e agli ispettori, giunti in azienda grazie ad alcuni lavoratori che hanno denunciato tutto ai sindacati. Azione che hanno pagato subito dopo con il licenziamento. Terribili le storie che raccontano i braccianti fatte di sfruttamento, sporcizia, maltrattamenti e infortuni anche gravi, che dovevano tacere: mai dire ai dottori che si erano fatti male lavorando, sempre che arrivassero al pronto soccorso. Le testimonianze riportano infatti come un giovane bengalese si fosse sentito male: Tresoldi, invece che in ospedale, lo ha fatto scaricare per strada nel quartiere in cui abitava. Soccorso dai passanti, è stato ricoverato per un attacco di appendicite.

Che dire poi delle mutilazioni per la totale inosservanza dei sistemi di sicurezza. Un romeno si è amputato l’alluce con una calibratrice per cipolle: ha perso un dito e pure il lavoro. Chi si è tagliato una mano, chi si è infilzato un ferro nel piede: nel periodo in cui stavano fermi per guarire, niente paga. C’è chi è stato costretto a tornare in mezzo ai campi nonostante il dolore per timore di perdere stipendio e posto di lavoro. Lavoro che si traduceva nell’abbeverare i campi per ore, di giorno e di notte, nel raccogliere le verdure che poi andavano lavate, con l’acqua gelida d’inverno e un misero paio di guanti in lattice sulle mani, che niente proteggevano. Per dieci ore al giorno, sei giorni la settimana. Le poche ore dedicate al riposo le trascorrevano alcuni ammassati in un appartamento, altri nello scantinato. E mica gratis: Tresoldi pretendeva da loro il pagamento di 120 euro al mese. La donna poi era di una cattiveria fuori dal comune: tutti raccontano delle urla per spronarli a lavorare sempre di più, degli insulti e delle percosse. Arrivava a scaraventare addosso ai braccianti le cassette ricolme di verdura. Dopo i controlli dello scorso anno ha smesso di maltrattarli fisicamente, ma ha rincarato la dose di insulti. L’operazione, denominata “Sfruttatori a km zero”, ha portato, oltre agli arresti, anche al sequestro preventivo di una casa a Maserà di Padova, del capannone e di quattro terreni ad Albignasego, di un deposito titoli e di un conto corrente per un valore complessivo di 550 mila euro circa, pari al totale dei contributi assistenziali e previdenziali non versati dall’azienda dal 2012 al 2016. «Dopo i fatti di Albignasego è ancora più urgente il collocamento pubblico per i lavoratori del settore agricolo, unico strumento efficace per sconfiggere definitivamente lo sfruttamento e l’illegalità in uno dei settori decisivi della nostra economia» dichiara Francesca Crivellaro, segretaria generale Flai Cgil Padova.

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