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Disastro-radon, pm e parte civile presentano il conto agli imputati

Chiesti due anni ai vertici dell’Aeronautica e della Sanità militare per omicidio colposo e lesioni gravi I legali delle numerose vittime domandano risarcimenti per due milioni e mezzo di euro

di Cristina Genesin
2 minuti di lettura
TEOLO. Decine di militari morti o ammalati a causa dell’esposizione al radon. Non fu un caso fortuito, ma ignoranza colpevole. Parole forti che il pm padovano Francesco Tonon imputa a due massime autorità militari ai vertici dell’Aeronautica italiana tra gli anni ’80 e e ’90, l'ex Capo di Stato Maggiore Franco Pisano, 86 anni di Abano Terme, e l'ex direttore generale della Sanità militare Agostino Di Donna, 88 di Roma, gli unici sopravvissuti tra gli imputati (in origine 4, due sono deceduti) chiamati a rispondere penalmente del disastro-radon. Ovvero dei militari che hanno patito sulla loro pelle l’esposizioni al gas naturale, dopo aver lavorato per anni nel ventre del Monte Venda, la base Nato creata nelle viscere di quelle rocce destinate a nascondere le sale operative del primo Roc attivo tra il 1958 e il 1998, anno della chiusura con il tramonto della guerra fredda.

La requisitoria. Nessuno sconto e piena responsabilità a carico di entrambi per omicidio colposo e lesioni gravissime. Il pm, appassionato di storia, ha reclamato la condanna a due anni di carcere ciascuno per i due alti ufficiali di fronte al giudice di Padova Beatrice Bergamasco. Condanna simbolica viste le età. Condanna che, di fatto, tira in campo lo Stato italiano fino a oggi sordo e cieco al problema, al contrario di quanto fecero gli Stati Uniti con i loro militari, come ha puntualizzato il magistrato in aula. «Oltre a operare in un ambiente insalubre, nella base non c’era un impianto di aerazione idoneo e i militari non disponevano di mezzi di protezione pur esistenti. Quanto al sito, mancò uno studio geologico del luogo caratterizzato dalla presenza di rocce laviche, così non si comprese che c’era radiooattività».

Inerzia colpevole. Eppure «c’erano gli strumenti sia normativi che di carattere tecnico-scientifico per capire e agire». Ecco l’inerzia colpevole dei vertici militari che «non predisposero efficaci soluzioni per eliminare o ridurre l'esposizione, nonostante l'esistenza di conoscenze scientifiche e di strumenti normativi già dagli anni '60 che disciplinavano l'esposizione alle radiazioni ionizzanti». Quali soluzioni possibili? La creazione di sistemi di aerazione (che erano limitati ad alcuni punti delle gallerie e del tutto inadeguati); l’assegnazione al personale di misure di protezione; infine la “sigillazione” della fonte del radon, la roccia, coperta da lamiere ondulate e non da resinatura come gli americani avevano provveduto a fare nella base di Aviano. Amara la conclusione: «L'Amministrazione militare ignorò totalmente il problema della presenza del gas radon e le soluzioni possibili». Così nel Primo Roc il radon toccava le migliaia di becquerel (unità di misura) per metro cubo, mentre il limite era di 400 becquerel.

La parte civile. Il legale di parte civile, l’avvocato Patrizia Sadocco ha ripercorso l’odissea dell’indagine iniziata nel 2003. E ha presentato il conto: un risarcimento di 2 milioni e mezzo di euro. Di nuovo in aula il 29 giugno.

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