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Si fa presto a dire pizza: sai quante versioni ne esistono in Italia?

Dalla napoletana classica stg (Specialità tradizionale garantita) al padellino torinese: un'antologia gustosa e ragionata delle principali tipologie che deliziano i palati italiani da Nord a Sud 
5 minuti di lettura

Napoletana, scrocchiarella, al taglio o al padellino. Ma anche in pala alla sorrentina, alta e morbida come la Gourmet di scuola veneta. La pizza in Italia è un variegato mondo di sapori, forme, consistenze e tipicità locali. E scegliere diventa, spesso, un’ardua impresa, anche perché non sempre la si conosce alla perfezione.

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E se è vero che alla pizza napoletana classica difficilmente gli italiani resistono, è altrettanto incontestabile che ogni italiano ha la sua pizza preferita, la consistenza perfetta per il suo palato, il condimento da Olimpo. Ognuno ha le sue opinione e le difende (spesso, social docet) con le unghie e con i denti prima ancora che con la forchetta e il coltello, soldato inconsapevole di una battaglia che racconta la nostra storia antropologica lungo secoli, tradizioni, caratteri di popoli e territori. Lungi dal prendere una posizione in questa annosa (e infinita) discussione, ma volenterosi di dare ai lettori quanti più dati possibili per affrontare discussioni social (e non!) sul proprio stile preferito, abbiamo stilato un vademecum degli stili di pizza più affermati del Paese. 

Napoletana Stg 

 Stesura pizza Stg (foto AVPN)
 Stesura pizza Stg (foto AVPN) 
La prima, la più antica, quella che si stende con lo schiaffo. A differenza di tutte le altre tipologie di pizza che verranno elencate in seguito, la pizza napoletana Stg non è un'opinione e non possono esistere scuole di pensiero. Il disciplinare è uno e ne disegna in maniera netta i confini gastronomici. La farina è esclusivamente di grano tenero, a cui vanno aggiunti "lievito di birra, acqua e sale. e per la farcitura classica pomodori pelati e/o pomodorini freschi, olio extravergine di oliva o ancora aglio e origano per la tipologia Marinara; Mozzarella di Bufala Campana DOP, basilico fresco e Mozzarella STG per la Margherita". Solitamente viene consumata calda subito dopo la cottura e non va conservata, pena la perdita della morbidezza caratteristica. La cottura in forno a legna (solo recentemente si sta aprendo a quella in forno elettrico per rari casi, ndr), la doppia lievitazione dell’impasto e la successiva stesura, questa si una vera arte tramandata da generazioni, sono parte integrante e insostituibile del gusto finale.  


Napoletana Contemporanea 
 La Margherita sbagliata di Franco Pepe è l'esempio perfetto di pizza napoletana contemporanea (non Stg)
 La Margherita sbagliata di Franco Pepe è l'esempio perfetto di pizza napoletana contemporanea (non Stg) 
Possono rientrare in questa categoria tutte le pizze che rientrano esteticamente e per tradizione nella descrizione della napoletana (cornicione pronunciato ma non troppo, stesura tradizionale, colore dorato non troppo carico), ma che utilizzano farine e ingredienti che esulano da quelli del disciplinare. Rientrano in questa categoria pizze oramai salite agli onori della cronaca come quelle di Franco Pepe e Francesco Martucci (entrambe lontane dall'essere pizze "a canotto", per la cui descrizione si rimanda al punto successivo), ma anche di molti altri maestri pizzaoli lungo lo stivale, dalla scuola di Da Zero (partiti da Agropoli hanno conquistato anche il Nord) a Massimo Bosco in Sardegna, passando per Dry e Crosta a Milano e poi giù fino a Potenza, da Fandango (le ultime quattro rispettivamente al 24°, 8°, 16° e 26° posto per 50 Top Pizza 2021). 

Pizza "a canotto" 
La pizza "canotto" di Vincenzo Capuano
La pizza "canotto" di Vincenzo Capuano 
C'era una volta la pizza a ruota di carro, poi al bancone si sono avvicinate mani giovani e i cornicioni si sono alzati. A volte moltissimo, ed è nata così la generazione della "pizza a canotto". Lontana dalla Stg sia per forma che per metodologie di stesura, raramente si vedrà al bancone lo "schiaffo" tipico della lavorazione classica. Tra le principali caratteristiche, l'utilizzo di diverse tipologie di farine, di polish e biga in fase di lievitazione, di impasti sempre più liquidi e meno consistenti in nome di una maggiore leggerezza finale. Il nome oggi è anche un marchio depositato di proprietà di Carlo Sammarco, pizzaiolo tra Aversa e Frattamaggiore tra i pionieri di questo stile, ma al di là del nome i seguaci di questo metodo (oramai troppo affermato per poterlo definire Nouvelle Vague) sono oramai tanti e affermati. 


Pizza in pala della Penisola Sorrentina

La pizza in pala alla sorrentina, di Università della pizza di Vico Equense 
La pizza in pala alla sorrentina, di Università della pizza di Vico Equense  
Una delle versioni street food della pizza nata in Campania è stata inventata negli anni '30 a Vico Equense, da Luigi Dell'Amura (di Gigino pizza a metro - L'Università della pizza) e oggi è uno stile diffuso in tutto il golfo partenopeo, perfetta per esigenze di convivialità e velocità legate al turismo così importante in queste zone. Questa tipologia di pizza è solitamente lunga 180 cm, di più delle altre pizze in teglia che troviamo lungo lo Stivale, suddivisi in diversi condimenti tenuti separati da strisce di impasto. Quest'ultimo è molto simile a quello stg classico, ma è più idratato e meno salato, oltre a subire una lievitazione più breve (un massimo di sei ore) e una cottura più lunga.  

Pizza Romana 
Pizza romana 
Pizza romana  
Bassa, scrocchiarella, preferibilmente non bruciata ma più scura della napoletana classica. Sono le parole chiave della pizza romana, "prodotto nato povero, negli anni '50 e '60 quando quasi nessuna famiglia si poteva permettere di uscire a cena. La pizza tonda è nata così: materie di qualità bassa, per contenere i costi" come ha ricordato in più occasioni Giancarlo Casa, patron de La Gatta Mangiona, storico locale capitolino. Solitamente l'impasto di base viene creato, soprattutto nei locali più contemporanei e all'avanguardia, con un prefermento, per un risultato "scrocchiarello ma non troppo. Non deve essere croccante e soprattutto, non deve mai essere secca. La consistenza giusta della pizza romana la si capisce dal rumore, non deve fare 'croc', bensì" l'onomatopea giusta ricorda quasi "un colpo di fruta. Deve essere friabile", così ricordava e sottolineava Iacopo Mercurio in un'intervista. La stesura dev'essere delicata e la cottura molto più lunga di quella napoletana, in modo che la consistenza sia poi quella desiderata. 

Pizza Romana in teglia e in pala
 Pizza in teglia alla romana (in foto: le pizze di Gabriele Bonci)
 Pizza in teglia alla romana (in foto: le pizze di Gabriele Bonci) 
In realtà le versioni più antiche e tradizionali della pizza romana, nate nei forni del pane molto tempo prima che la tonda scrocchiarella arrivasse a tavola nelle trattorie e pizzerie ante litteram degli anni del boom economico. La differenza principale tra i due stili è la consistenza, ma non solo. Nel primo caso, la pizza in teglia alla romana è protetta da un disciplinare: lievita ben 72 ore (molte di più sia della tonda che di quella in pala) e viene cotta solo in teglie 60x40 che le donano spessore e forma caratteristici (non deve essere mai più spessa di 30 millimetri o meno di 15). Omogenea in superfice, è croccante e leggermente unta all'assaggio, con una buona alveolatura interna alla mollica, data dalla lunga lievitazione. La pizza romana in pala ha invece la sommità generalmente irregolare, trattata a mano, anzi in punta di dita. Larga 30 cm, non è mai più lunga di un metro e a differenza della pala della penisola sorrentina, il supporto può essere anche in acciaio. Solitamente l'impasto viene lasciato lievitare tra le 18 e le 24 ore, ma mai più di 48 anche nelle sperimentazioni più spinte e viene cotto a 350° per una media di 5 minuti. 

Pizza nel ruoto (Campania) e Pizza nel padellino (Torino) 
Pizza nel ruoto di Pizzeria Elite di Pasqualino Rossi 
Pizza nel ruoto di Pizzeria Elite di Pasqualino Rossi  
La pizza in teglia nella tradizione campana è in realtà la pizza nel ruoto, ovvero una teglia rotonda di acciaio, di tradizione prettamente campagnola. Questa tipologia di pizza deve infatti i suoi natali all'abitudine delle massaie della provincia napoletana (e non solo, è molto radicata nel casertano e in tutte le zone montane) di utilizzare l'impasto avanzato dalla panificazione quotidiana per fare la pizza per la famiglia, in piccole quantità che non andavano vendute. Il sapore è rustico e le ricette tradizionali sono quella al pomodoro e origano (marinara) o margherita, senza dimenticare quella con patate e rosmarino, tutti ingredienti poveri, possibili da trovare in ogni casa. La pizza nel padellino è invece una specialità torinese caratterizzata da una doppia lievitazione dell'impasto e poi dalla cottura in forno all'interno d'una piccola padella o d'un piccolo tegame preventivamente unto da un velo di olio d'olica. In città, all'ombra della Mole, è egualmente denominata al tegamino o al padellino, nonostante alcuni dibattiti abbiano negli anni provato a far affermare una denominazione sull'altra, senza però riuscire a cambiare l'uso comune.  
 
Pizza Gourmet di scuola veronese
La pizza gourmet di scuola Veronese di Simone Padoan 
La pizza gourmet di scuola Veronese di Simone Padoan  

Nonostante l'abuso del termine gourmet, che sembra indicare tutto e niente, dagli abbinamenti più insoliti ma eccessivi a quelli ricercati nella qualità ma semplici nella sostanza, c'è un'unica tipologia di pizza che negli anni ha effettivamente e definitivamente abbinato la sua esistenza a questo aggettivo. Ovvero la pizza della scuola veronese, solitamente servita già a spicchi, dalla spiccata alveolatura, tendenzialmente bianca, in cui il topping è diviso su ogni spicco in parti perfettamente uguali, in modo che ogni morso sia un piccolo piatto. Come un racconto autoconclusivo.  Tra i suoi interpreti più famosi, oltre che uno dei padri assoluti di questo metodo, è Simone Padoan de I Tigli di San Bonifacio, nei pressi di Verona