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Alla Cop26 i veri assenti non sono Russia e Cina: l'Italia non ha un inviato per il clima

L'attivista di Fridays For Future racconta la differenza tra la visione dei media e quella di chi è a Glasgow.
4 minuti di lettura

ll contributo di Giorgio Brizio alla rubrica di testimonianze dalla Cop26 di Glasgow. La redazione di Green&Blue è pronta a ricevere contributi, anche multimediali, da Glasgow. Mandate video, foto, testi a redazione@green&blue.it

La Cop (acronimo che stiamo imparando a conoscere e che sta per Conferenza delle Parti) è, tra le altre cose, un’occasione per vedere chi, nel raccontare la crisi climatica e cosa avviene all’interno di uno degli eventi più variegati e articolati del Pianeta, è un addetto ai lavori – e chi invece è l’ennesimo tuttologo che si muove da un’onda mediatica all’altra, cercando di cavalcarne la cresta, in un grande mare in cui chiunque sembra ormai adatto e capace a parlare di qualsiasi cosa.

E, intendiamoci, io sono solo uno studente ventenne, non certo un navigato addetto ai lavori, ma negli ultimi giorni ho avuto la fortuna di essere a Glasgow e di poter guardare un po’ più da vicino alcune cose.

Uno degli elementi che sono stati maggiormente presenti nei notiziari e che più hanno assunto peso nei dibattiti in Italia sull’edizione del 2021 della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici è l’assenza di paesi come Cina, Russia, India, Brasile alla COP26. “Grandi assenti” e altre espressioni così.

Peccato che si tratti di una falsità. Non ci sono alcuni Capi di Stato, questo è vero; come è altrettanto vero che Xi Jinping non è mai uscito dalla Cina dall’inizio della pandemia e che Vladimir Putin non si è presentato nemmeno al G20 di Roma. Ma le delegazioni di questi paesi ci sono eccome, sono ufficialmente registrate e ci sono decine di delegati presenti per negoziare e rappresentare ciascuno di questi Stati.

Oltre 40.000 persone hanno accesso agli eventi chiusi della Cop di Glasgow, che a causa dell’inaspettata ed elevatissima partecipazione sta riscontrando seri problemi logistici, e non ci sono limiti al numero di partecipanti delle delegazioni nazionali. Le Parti possono registrare e fare entrare chi vogliono.

I Paesi precedentemente citati hanno alcune delle delegazioni più imponenti: la Russia, ad esempio, ha undici pagine di delegati registrati, per un totale di 312 membri.

A dirla tutta, come rivelato da Bbc e denunciato dalla ong Polluters Out “Fossil fuel industry has the largest delegation at Cop26.” Nonostante gli sforzi e le pressioni della società civile nel limitare le possibilità di lobbying di questi marchi, i soggetti che fanno riferimento all’industria dei combustibili fossili, se sommati assieme, formano una delegazione più ampia di qualsiasi altra nazione. È un altro preoccupante indicatore di come sta andando questa Cop, che intanto oggi, a qualche giorno dal suo termine, è diventata la seconda più cercata su Internet dopo quella di Parigi, prima in assoluto in Italia.

Un altro aspetto che trovo curioso e sinceramente un po’ irritante è il tentativo di addossare la colpa dell’aumento della temperatura e della conseguente crisi ambientale esclusivamente ad alcuni di questi Paesi.

La Cina è responsabile del 27% delle emissioni climalteranti, più di un quarto a livello globale, più di Russia, Stati Uniti, Giappone e India messi assieme. Quest’ultima ha dichiarato di voler raggiungere lo zero netto di emissioni al 2070 (molto tardi) ma ha fornito un’ampia serie di dati e informazioni su come farlo. È chiaro che non c’è modo di scampare al collasso climatico se non si riesce a coinvolgere questi Paesi in un percorso comune di transizione energetica e di drastica riduzione delle emissioni, come già l’Europa e gli Stati Uniti stanno facendo. Ma in questo ragionamento, per evitare lo scaricabarile che comunque non ci porta da nessuna parte, dobbiamo tenere in considerazione che proprio le potenze occidentali hanno inquinato in passato molto di più di quanto non faccia oggi la Cina, costruendo il loro sviluppo e la loro prosperità economica in una cornice in cui il clima non era ancora al centro dell’agenda politica. È una questione di responsabilità storica e di giustizia climatica. Non possiamo pretendere che specialmente le persone più povere nei paesi più poveri e che meno di tutte hanno contribuito all’avanzata della tempesta del collasso climatico subiscano le maggiori ricadute dell’emergenza in atto e della conseguente transizione non ancora matura in alcune zone del pianeta.

Da qui l’idea e la promessa di stanziare 100 miliardi per sostenere in questo percorso i paesi sottosviluppati o sovrasfruttati dell’allora Presidente degli Stati Uniti Barack Obama nella Cop del 2009 a Copenaghen. Fondi che, come ricordato dall’attivista Vanessa Nakate prima del discorso di Obama, non sono ancora mai arrivati.

Alle 5:48 di mercoledì è uscita la prima possibile bozza dell’accordo finale della Cop: rimane l’espressione “well below 2 °C” e non si punta con forza all’aumento massimo di 1.5 gradi, il termine per l’invio degli Ndc’s (accordi volontari di riduzioni delle emissioni che dovevano essere aggiornati a 5 anni dall’Accordo di Parigi, cosa fatta solo da 11 paesi fin ora) è rimandato al 2022, si invitano i Paesi a ridurre non solo la CO2 ma anche gli altri gas serra, viene espressa “grande preoccupazione” per l’ennesima assenza dei 100 miliardi, ci si appella a una “loss and damage finance”, viene menzionato il phase-out dal carbone ma senza paletti precisi. L’espressione “fossil fuels” è citata solo una volta (la prima nella storia delle cover decisions), mentre le parole “metano”, “agricoltura” e “allevamenti” nemmeno una.

L’Executive director di Greenpeace ha detto “Non è un piano per risolvere la crisi climatica. È un accordo sull’incrociare le dita e sperare per il meglio.”

Nel corso della giornata di ieri, la sensazione che i negoziati si potessero arenare era davvero forte.

Nel “momento più difficile” delle trattative, in cui Boris Johnson ha esortato i colleghi ad “alzare il telefono e dare ampio spazio di manovra ai propri delegati”, è arrivata però la sorpresa: una dichiarazione congiunta con relativa conferenza stampa di Stati Uniti e Cina - che di per sé è già una notizia.

Di seguito due passaggi rilevanti della dichiarazione:

“Gli Stati Uniti e la Cina, allarmati dai rapporti,tra cui il contributo del Gruppo di lavoro I al sesto rapporto di valutazione dell'IPCC pubblicato il 9 agosto 2021, riconoscono ulteriormente la gravità e l'urgenza della crisi climatica".

"Dichiarano la loro intenzione di lavorare individualmente, congiuntamente e con altri Paesi durante questo decennio decisivo, in conformità con le diverse circostanze nazionali, per rafforzare e accelerare l'azione per il clima e la cooperazione volte a colmare il divario, compresa l'accelerazione della transizione verde e a basse emissioni di carbonio e innovazione tecnologica per il clima".

 

Xie Zhenhua e John Kerry, inviati speciali per il clima delle due potenze, hanno comunicato di aver trovato un accordo sulla riduzione delle emissioni di metano, sull’accelerazione della decarbonizzazione e i finanziamenti alla transizione, e annunciato collaborazione e impegno d’ora in poi crescenti.

In tutto ciò, l’Italia, nonostante sia co-organizzatrice di questa Cop, un inviato per il clima non ce l’ha nemmeno. Questo perché i nostri Ministri degli Affari Esteri e della Transizione Ecologica non hanno saputo mettersi d’accordo. E continuiamo a farci pessime figure, una dietro l’altra: siamo uno dei pochi Paesi occidentali a non avere un nostro padiglione all’interno della Conferenza, abbiamo firmato pochissimi accordi e iniziative, e quelle che abbiamo sottoscritto le abbiamo firmate all’ultimo minuto, tanto da non comparire sulle mappe e meritare la frase del Guardian "in un dramma dell'ultimo minuto, l'Italia, che presiede Cop, ha aderito all'accordo giovedì mattina". Altro che India o Russia, i grandi assenti siamo noi. Forse, a dirla tutta, non siamo mai stati presenti.

Che possa essere una mossa congiunta di USA e Cina, come era accaduto per gli Accordi di Parigi nella Cop21, a smuovere le acque e invertire le sorti dell’evento del decennio?

Anche se le premesse non sono le migliori, ora che a Glasgow la situazione sembra cambiare di ora in ora, è troppo presto per parlare di “flop”. Tutto è ancora da vedere, giornate intense e notti insonni sono in arrivo.

Giorgio Brizio, 19 anni, è attivista dei Fridays for future. Ha scritto "Non siamo tutti sulla stessa barca" (Slow Food Editore)