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Una villa confiscata al clan Casamonica. Simona Granati - Corbis/Getty Images
Una villa confiscata al clan Casamonica. Simona Granati - Corbis/Getty Images 

Il limbo dei beni sequestrati alle mafie

Ovvero come vanificare una buona legge: quasi 20mila immobili e 3mila aziende sono in attesa di una destinazione, con procedure che durano decenni e arrivano quasi sempre a un punto morto

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Il Fiore è un piccolo ristorante di Lecco diventato famoso per la qualità della sua cucina, per il microcosmo di buona integrazione rappresentato dai suoi 11 dipendenti (accanto agli italiani ci sono lavoratori che arrivano dal Ghana, dal Senegal e dall’Albania), per essere stato, in passato, il locale di proprietà del boss della ‘ndrangheta Franco Coco Trovato. Allora si chiamava Wall Street e puzzava di soldi riciclati, adesso il suo sottotitolo è Cucina in libertà per sottolineare il cambio di paradigma.

Il sequestro del ristorante Wall Street di Lecco, nel 1992.
Il sequestro del ristorante Wall Street di Lecco, nel 1992. 

Una storia a lieto fine, se non fosse per un drammatico dettaglio: il ristorante è stato sequestrato nel 1992, ed è finito nelle mani giuste, la Cooperativa sociale Olinda, soltanto nel 2017. Dopo venticinque anni, un quarto di secolo.

Purtroppo buona parte del gigantesco patrimonio dei beni sequestrati ai clan della malavita, anche se in ritardo, non ha lo stesso destino del locale sottratto al boss e affidato agli immigrati, ma in generale galleggia nel limbo dello spreco. Come al solito abbiamo una buona legge (il primo testo risale addirittura al 1996), citata spesso in sede europea come modello per sconfiggere i clan, un’Agenzia nazionale con diverse sedi, destinata esclusivamente all’amministrazione e alla destinazione dei beni sequestrati alla criminalità organizzata (ANBSC), e tanti servitori dello Stato che dopo anni di  accurate indagini riescono a colpire le mafie nel loro punto più sensibile: il denaro.

Ma il castello, poi, si sgretola alla prova dei fatti. Quasi 20mila immobili e 3mila aziende sono in attesa di una destinazione, con procedure che durano decenni e arrivano a un punto morto. Costi secchi, beni deteriorati, imprese che scompaiono dal mercato senza poterci più rientrare, e occasioni sprecate, in quanto qualsiasi vendita o cessione temporanea, se fatta nei tempi giusti, crea lavoro e diventa fonte di guadagni puliti.

Anche la destinazione dei beni, quando avviene, è fonte di sprechi. Le vendite hanno riguardato soltanto il 4% delle pratiche chiuse, praticamente nulla, mentre nell’81% dei casi i beni sono stati affidati a enti locali (2.176 comuni). Con il paradosso che i due terzi di questi comuni non hanno neanche l’accesso  alle informazioni dell’Agenzia e dunque non sanno da dove cominciare per affidare nelle mani giuste il bene sequestrato alla criminalità. Un dialogo tra sordi, lo Stato e gli enti locali, mentre in questa palude di immobilismo si è creata una piccola lobby di professionisti incaricati di gestire immobili e aziende in via transitoria. Ma in Italia, lo sappiamo, non esiste nulla di più definitivo del temporaneo.

 

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