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Mediterraneo come un mare tropicale: le specie alloctone sono ormai la maggioranza

Mediterraneo come un mare tropicale: le specie alloctone sono ormai la maggioranza

Il ricercatore italiano Paolo Albano, con il suo team all'Università di Vienna, ha pubblicato uno studio sulle coste israeliane. Dove le antiche specie di molluschi sono scomparse per via del caldo e quelle marine ora sono esclusivamente tropicali. "Più si scalda il Mare Nostrum, più questo scenario che abbiamo visto e documentato non potrà fare altro che spostarsi verso ovest"

7 minuti di lettura

Il futuro del Mediterraneo è nel suo passato: la paleontologia può rivelarci cosa è successo al "mare nostrum" e cosa sta per succedere per via del riscaldamento globale. A suggerirlo è un ricercatore italiano di 43 anni, Paolo Albano: con il suo gruppo all'Università di Vienna, ha pubblicato su Proceedings B uno studio che mostra come sulle coste di Israele negli ultimi 30 anni si sia perso quasi il 90% delle antiche specie native di molluschi. Per via della temperatura che, in quelle zone, è aumentata di ben 3 gradi negli ultimi 40 anni.


Dottor Albano, come è nato questo studio?
"Il mio obiettivo iniziale era studiare le cosiddette specie "aliene", ovvero quelle specie animali e vegetali che non sono proprie del Mediterraneo, ma che vi arrivano in vario modo. In particolare il mio obiettivo era il canale di Suez, che mette in comunicazione il Mar Rosso con il Mediterraneo. E da qui sappiamo che sono entrate centinaia di specie tropicali, in particolare nel Mediterraneo orientale. Tuttavia..."


Tuttavia?
"...nel momento in cui ho messo, letteralmente, i piedi in acqua in Israele, mi sono accorto che c'era qualcosa che non andava. La mia aspettativa era chiara: un Mediterraneo, magari un po' diverso dal nostro, con l'aggiunta di queste specie tropicali. Invece quello che ho trovato era un mare che era quasi esclusivamente popolato da specie tropicali: non trovavo quelle specie mediterranee comuni, di grandi dimensioni, tipiche del nostro mare. Questo mi ha incuriosito, e così l'obiettivo del progetto si è spostato verso questo fenomeno che stavo osservando".


Quali specie sono scomparse nel Mediterraneo Orientale?
"Ad esempio i murici, ovvero i molluschi che gli antichi romani usavano per colorare di porpora i loro tessuti. I murici sono specie estremamente comuni. Ricordo di averli visti nel Nord Adriatico in quantità enormi, sia nei mercati del pesce che sulle barche dei pescatori. È anche una delle specie più facili da vedere in immersione, anche in pochi metri d'acqua: perché queste specie non si nascondono troppo. Nel Mediterraneo vivono tre specie di murici. Io sulle coste di Israele ho visto solamente un individuo di una specie: e questo è assolutamente anomalo. Mentre ad esempio in Puglia è facilissimo vedere murici, anche entrando in acqua solo con pinne e maschera. È un esempio di "grandi assenti".


Che ruolo ha il riscaldamento globale in questa perdita di biodiversità?
"Bisogna capire che l'estremo Mediterraneo orientale, il cosiddetto "bacino levantino", è naturalmente una delle zone più calde del Mediterraneo. Questo implica che la maggior parte delle specie mediterranee che storicamente sono state presenti in quell'area, è stata sempre al limite della sua tolleranza alla temperatura. Questo perché gran parte della fauna mediterranea viene - naturalmente, ovvero al netto di interventi dell'uomo - dall'Atlantico. Perché la storia geologica ci dice che 5 milioni di anni fa il Mediterraneo era isolato e quasi disseccato, dopodiché si è riaperto il collegamento con l'Oceano Atlantico. La attuale fauna atlantica però è una fauna temperato-fredda, come possiamo facilmente sperimentare se in estate facciamo il bagno nell'Atlantico in Portogallo. Gli animali che vivono nel Mediterraneo Orientale sono già ai limiti rispetto alla loro capacità di resistere alla temperatura..."


Quindi basta un ulteriore leggero aumento di temperatura per danneggiarli?
"È proprio questo il punto. Il cambiamento climatico ha una media globale, però poi ha delle situazioni locali che sono più estreme: il Mediterraneo orientale è un esempio, perché la temperatura è salita di 3 gradi negli ultimi 40 anni. Un aumento di temperatura estremamente significativo, in un breve lasso di tempo, in una zona che era già ai limiti della capacità di molte specie animali di adattarsi alla temperatura. Su questa situazione già estremizzata, il riscaldamento globale mette una pressione ulteriore che porta al collasso delle specie. Un'ulteriore prova che la temperatura è uno dei fattori principali di questo fenomeno è il fatto che noi non vediamo un fenomeno simile nelle acque profonde: se ci spostiamo a 80-90 metri di profondità, sempre nel bacino levantino, vediamo un mare in ottime condizioni. Questo perché, in profondità, la temperatura dell'acqua è di soli 17 gradi. Con la profondità la temperatura diminuisce - e diventa anche più costante durante l'anno. E lì abbiamo temperature ampiamente all'interno del range di tolleranza della maggior parte delle specie mediterranee".

 

Nelle acque poco profonde, invece, le specie native sono sparite dal bacino levantino...
"Oltre al fatto che mancano all'appello l'80% - 90% delle specie, bisogna aggiungere che di quelle che abbiamo trovato, il 60%, quindi più della metà, non pare raggiungere la taglia riproduttiva. Cioè non crescono abbastanza per essere loro a creare una popolazione che si sostiene da sola. Questo fa pensare che il futuro sarà molto peggio di quello che vediamo oggi".


A proposito di futuro: quali sono le implicazioni per il resto del Mediterraneo?
"Sicuramente quello che abbiamo visto in Israele non è, oggi, solo in Israele. Io mi sento abbastanza sicuro nel dire che situazioni analoghe le abbiamo in altre coste del bacino levantino, come le coste del Medio Oriente e della Turchia Orientale. Quello che vediamo è che le condizioni di riscaldamento stanno creando situazioni sempre più idonee anche alle specie tropicali, anche verso ovest, ad esempio in Grecia. Quindi più si scalda il Mediterraneo, più questo scenario che abbiamo visto e documentato in Israele non potrà fare altro che spostarsi verso ovest. Lo scenario è il progressivo impoverimento della fauna tipica del Mediterraneo con il progredire del riscaldamento climatico, soprattutto nel Mediterraneo Orientale".


E l'Italia?
"L'Italia ha una situazione leggermente più favorevole, perché, essendo posizionata nel Mediterraneo centrale, ha intorno a sé dei mari che ancora non sono così caldi, che non sono ancora ai limiti di tolleranza delle specie mediterranee. Anzi l'Adriatico è un mare decisamente fresco. Soprattutto al nord: è una delle zone più fredde del Mediterraneo. Quindi spero di essere ottimista nel dire che non vedremo una situazione così drammatica in Italia nel breve termine. Però è evidente che il Mediterraneo è uno, e quindi quello che sta già succedendo è che le specie tropicali che entrano dal canale di Suez troveranno sempre più zone idonee verso ovest e verso nord. Quindi la penisola italiana si troverà sempre più ad essere colonizzata da queste specie che sono di affinità tropicale. Così come si è visto che diverse specie autoctone del Mediterraneo che per loro esigenze fisiologiche preferivano il caldo ed erano confinate ai settori più meridionali, come Nord Africa o Sicilia, stanno risalendo la penisola sempre più verso Nord. Perché il riscaldamento porta ad avere, anche a nord, acque sempre più idonee a queste specie. Ad esempio ho riscontrato che delle specie di molluschi tipiche del Nord Africa in pochi decenni sono arrivate all'Argentario, in Toscana".


In che modo la paleontologia, che studia il passato, può aiutarci per il futuro?
"Io ho lavorato con i paleontologi a Vienna, ma sono un biologo, e questa è una ricerca multidisciplinare. Perché la multidisciplinarietà è importante? Perché uno dei problemi principali della biologia marina è l'assenza o la scarsità di dati storici su come gli ecosistemi marini erano in passato. In Israele dei dati robusti sono stati raccolti per la prima volta alla fine degli anni '60. Poi vi è stato un certo calo degli studi negli anni 80 e 90. Per poi arrivare a nuovi campioni che coprono gli ultimi 20 anni. Ma l'apertura del canale di Suez risale al 1869. Quindi abbiamo circa 100 anni in cui in una zona così affetta da questo fenomeno delle invasioni biologiche abbiamo pochissime - ed estemporanee - informazioni. Sì, qualche ricercatore andava, osservava delle cose e le riportava nella letteratura scientifica. Ma in modo assolutamente occasionale. E poi abbiamo avuto degli studi più importanti e meglio progettati solo negli ultimi 50 anni. Quindi noi non sappiamo nulla su come era il Mediterraneo orientale prima dell'apertura del canale di Suez. Come sappiamo poco di come era dall'apertura del canale di Suez fino a questa grossa spedizione scientifica che fu fatta alla fine degli anni '60. Questo ci pone un problema: quando noi oggi ci buttiamo in acqua in Israele e non vediamo delle specie animali, come facciamo a sapere se quello che non vediamo è una mancanza recente oppure non c'è mai stato?".


Già, come riuscite a capirlo?
"Questo problema si può superare sfruttando i metodi che usano i paleontologi. I molluschi hanno la conchiglia, che nella maggior parte dei casi dura a lungo sul fondo del mare dopo che il mollusco che l'ha prodotta muore. Le conchiglie possono rimanere sui fondali per decenni, secoli e anche qualche millennio. Quindi per ricostruire il passato di un ecosistema marino, è importante confrontare ciò che osserviamo riguardo alle specie vive con i resti che troviamo degli animali morti tanto tempo fa. Il nostro lavoro, in questo studio, è stato confrontare quello che trovavamo vivo nei siti di campionamento durante l'anno con quello che trovavamo morto. È così che abbiamo potuto quantificare la perdita di biodiversità".


Lei è un biologo. Come è stato il suo passaggio dalla biologia in Italia alla paleontologia a Vienna?
"Io, bolognese, ho ottenuto il mio dottorato di ricerca in biologia all'Università di Bologna. Ma ho una passione sin dall'infanzia per le conchiglie. Che raccoglievo passeggiando sulla spiaggia e collezionavo. Poi col tempo questa passione ha assunto un approccio scientifico. Le conchiglie hanno questa caratteristica: di rimanere nei sedimenti a lungo. Pur essendo biologo, ho sempre avuto un interesse e una sensibilità non solo per l'animale vivente, ma anche per la sua conchiglia. E già durante il mio dottorato di ricerca ho studiato la fauna di un'area marina protetta nel Mar Tirreno, sia gli animali vivi che le conchiglie. E poi grazie a una borsa Marie Curie per la mobilità dei ricercatori in Europa, nel 2013 mi sono trasferito all'università di Vienna, grazie al contatto con un professore dell'università di Vienna che è un paleontologo ma che partendo dalla paleontologia si era sempre più interessato a come sfruttare questi metodi e concetti della paleontologia per studiare la conservazione della biodiversità in mare".

Lei raccontava prima delle conchiglie. Quando è stato che lei ha capito che questo mondo era così affascinante... quando ha iniziato la prima collezione?
"Avevo 8 anni. Fin da subito è stato un interesse molto forte e che ho sempre cercato di portare avanti acquistando dei libri, quindi in maniera "scientifica" per quanto possa fare un ragazzino. E questa passione poi è diventata, con gli studi e il lavoro, una professione. Oggi lo posso dire: perché mentre a Vienna avevo dei contratti a termine grazie ai finanziamenti che mi ero riuscito a procurare, a marzo tornerò in Italia dove inizierò un contratto a tempo indeterminato presso la Stazione Zoologica di Napoli".


A Napoli cosa studierà?
"La mia priorità sarà tornare nel Mediterraneo orientale e ripetere un lavoro rigoroso come quello che abbiamo fatto in Israele in altre zone. Per quantificare il problema in altre zone del "mare nostrum". Per capire il futuro del Mediterraneo cominciamo dal presente: dal capire quanto è esteso il problema. E cerchiamo di indagare sulle cause - il riscaldamento globale è una causa primaria, ma possono esserci anche altre cause antropiche - ricostruendo delle serie temporali sempre più lunghe, magari grazie anche ai musei e alla letteratura scientifica meno conosciuta. Per impostare una strategia di mitigazione e di riduzione delle pressioni è necessario capire bene sia a scala locale che su scala più ampia quali sono tutte le cause".


In questi anni a Vienna le è mancato il mare dell'Italia?
"Bologna e Vienna non sono così lontane: 700 km. In questi anni sono andato e tornato molte volte. E ho quindi mantenuto il mio contatto con il Mediterraneo. Perché più lavoravo nel Mediterraneo orientale, più andavo in vacanza nel nostro mare e la differenza risaltava ai miei occhi".


So che lei ama il mare della Puglia...
"La frequento fin da bambino. È stato uno dei punti in cui ho iniziato a coltivare il mio interesse per le conchiglie e la biologia marina perché la Puglia è una regione eccellente da questo punto di vista. È esposta sull'Adriatico e sullo Ionio. È una delle regioni italiane più stimolanti per i biologi marini. Forse la zona più interessante è quella di Porto Cesareo (Lecce). È un'area rinomata per l'interesse biologico".


A che facoltà si era iscritto da ragazzo?
"Io ho una laurea in ingegneria ambientale. Studiavamo ad esempio la depurazione delle acque, la gestione dei rifiuti, l'abbattimento delle emissioni in atmosfera".


Quindi ha fatto il dottorato in biologia dopo?
"Esatto. Dopo aver studiato la fauna di un'area marina protetta, ho capito che era il caso di seguire la mia passione per la biologia marina. Così ho fatto il dottorato di ricerca in biologia all'Università di Bologna".

In quale area marina protetta ha lavorato?
"Quella delle Secche di Tor Paterno. È al largo di Torvaianica. È un'area marina protetta unica. Le secche sono come delle montagnette che emergono da un fondale più profondo e arrivano vicino alla superficie. Sono zone estremamente interessanti perché questi affioramenti rocciosi sul fondo diventano un luogo di concentrazione di fauna di ogni genere. E quindi il mio obiettivo durante il dottorato fu di studiare la biodiversità di quest'area marina molto interessante, che però può essere frequentata esclusivamente in immersione subacquea perché è totalmente al largo, non ha una componente costiera. Il contrasto tra la ricchezza di questa esperienza e il dramma che ho descritto nel Mediterraneo Orientale mi ha motivato ulteriormente nelle mie ricerche".