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Con i mari più caldi di un grado avremo tornado nel Mediterraneo

Uno studio del Cnr sul tornado che ha colpito Taranto nel 2012 dimostra che, con la crescita del global warming, il Mediterraneo non è più al sicuro

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ROMA - Spinti dal caos climatico, crescono gli uragani che bussano alle porte dell'Europa. Ophelia, che nei prossimi giorni arriverà sul tratto compreso tra il Nord della Spagna e l'Irlanda, dimostra che il vecchio continente non è più al riparo. E l'Italia? La penisola iberica sembrerebbe offrire uno scudo sufficiente, ma uno studio del Cnr dimostra che il Mediterraneo ha un posto in prima fila nel palcoscenico del rischio climatico.

La ricerca congiunta Isac-Cnr e Iia-Cnr pubblicata su Scientific Reports dimostra che se il cambiamento climatico già in atto non avesse prodotto un aumento di temperatura di quasi un grado, il tornado che nel 2012 colpì Taranto causando un morto e 60 milioni di euro di danni non si sarebbe prodotto. Mentre con un grado di temperatura in più del mare rispetto a oggi, cioè in uno scenario di global warming temperato, il tornado acquisterebbe dimensioni e violenza molto maggiori. Se poi il termometro salirà ancora, cioè se non si ridurranno in maniera drastica e veloce le emissioni di gas serra, l'intensità dei venti distruttivi crescerà in maniera esponenziale.

"Abbiamo applicato un modello meteorologico ad alta risoluzione che è stato in grado di riprodurre correttamente tutti gli elementi che hanno portato alla nascita del tornado: il percorso della cella temporalesca, la tempistica, la variazione di intensità", spiega Mario Marcello Miglietta, ricercatore Isac-Cnr e primo autore dell'articolo. "E abbiamo fatto girare il modello simulando prima una situazione in cui il mare aveva un grado in meno rispetto a oggi e poi una situazione in cui il mare aveva un grado in più. I risultati dell'analisi sono validi per tutta l'area del Mediterraneo".

La temperatura del mare è il parametro chiave perché è lì che si nasconde il motore che dà forza agli uragani. "Gli uragani che si abbattono sulla costa atlantica degli Stati Uniti sono tempeste tropicali che hanno acquistato forza sul Mar dei Caraibi: si tratta di fenomeni che possono raggiungere un diametro di un migliaio di chilometri con venti che raggiungono i 250 chilometri orari, molto simili ai tifoni che colpiscono l'India", spiega Antonello Pasini, l'altro autore dell'articolo. "In Italia ci sono trombe d'aria con un diametro di poche decine di metri che però, avendo un vortice concentrato, possono produrre danni consistenti. Ora, con un mare sempre più caldo, c'è la concreta possibilità che raggiungano dimensioni e intensità ben più alte".

Dagli anni Ottanta sono stati studiati nel Mediterraneo anche i cosiddetti Medicaines, cicloni che raggiungono un diametro di qualche centinaio di chilometri e che potrebbero diventare sempre più aggressivi. Per ridurre il rischio uragani occorre tagliare i gas serra, che sono i responsabili della destabilizzazione del clima. E da questo punto di vista c'è qualche segnale positivo: il 2016 è stato il terzo anno consecutivo di emissioni mondiali di CO2 stabili, nonostante una crescita del Pil mondiale di oltre il 3%. Merito soprattutto dei due più grandi inquinatori del mondo, Stati Uniti e Cina, che stanno portando avanti più velocemente del previsto la corsa verso l'energia green.

"In questo quadro risulta ancora più preoccupante il rallentamento del percorso di decarbonizzazione  in Italia negli ultimissimi anni, con una ripresa dei consumi energetici a cui non è corrisposta un'adeguata accelerazione nelle fonti rinnovabili e nell'efficienza energetica", osserva Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile. "Per mettere il clima in sicurezza bisogna che i prezzi dell'energia siano corretti. E cioè che chi emette anidride carbonica paghi di più".